La elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana
L’UNITÀ
ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 40 * * Anno XXXIX / N. 125 / lunedì 7 maggio 1962
MARIO ALICATA Direttore
LUIGI PINTOR Condirettore
TADDEO CONCA Direttore responsabile
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Al nono scrutinio con soli 15 voti di maggioranza
Segni eletto di stretta misura con i voti determinanti del MSI
Il cedimento di Fanfani ha aperto la strada alla vittoria di Segni – Un grave broglio provoca la sospensione e il rinvio dell’ultima votazione per «garantire la segretezza del voto» – Saragat candidato della sinistra ha riportato 334 voti
Alle undici e trentacinque di ieri sera. dopo cinque giorni di votazione al termine di una lunga seduta di selle ore e mezzo, segnata da momenti di viva agitazione e drammaticità, Antonio Segni è stato eletto Presidente della Repubblica, con soli, 15 voti di maggioranza. Determinanti per la elezione di Segni al nono scrutinio sono stati i voti fascisti e monarchici, che hanno permesso al candidato dei «dorotei» di colmare il vuoto lasciato aperto da 64 voti democristiani contrari, espressi in schede bianche e in voti dispersi sui nomi di Merzagora, (5) Gronchi (5) Piccioni (2) e Jemolo (1). Saragat, sul quale fino all’ultimo si sono riversati i voti dei partiti antifascisti (PCI, PSI, PSDI, PRI) ha riscosso anche nell’ultima votazione 334 voti.
La elezione di Segni, la prima di un Capo dello Stato italiano che avvenga con una votazione così bassa e l’apporto determinante della destra monarchica e fascista, è stata salutata da un applauso dei soli settori democristiani e della destra. Le sinistre non si sono associate e non hanno votato il verbale della seduta, letto da uno dei segretari. Strette di mano fra deputati di destra e democristiani, fra «dorotei» e «fanfaniani» il cui estremo recupero ha consentito di allargare la esigua maggioranza a una quindicina di voti) hanno sancito la fine della seduta. Scelba e Andreotti hanno ricevuto molte congratulazioni per la elezione del candidato del centro-destra. E anche Moro e stato fatto segno a strette di mano significative da parte di numerosi «dorotei», le cui minacce e pressioni hanno piegato le resistenze interne della DC, determinando anche la marcia del segretario del partito.
Dopo la elezione, Leone e Merzagora si sono recati a Palazzo Chigi da Segni, che sostava nella sala della Mitologia e gli hanno comunicato ufficialmente l’esito dell’ultimo scrutinio. Segni li ha ringraziati e poi ha detto: «Con l’aiuto di Dio cercherò di adempiere ai miei nuovi gravi doveri verso il popolo italiano». Altre felicitazioni da parte di Fanfani, dei ministri e di Moro, il neo Presidenteha ricevuto a Palazzo Chigi Fanfani, che già nel pomeriggio aveva posto fine ufficialmente alla sua debole resistenza alla elezione di Segni, gli ha porto gli auguri a nome del governo, abbracciandolo. Abbracci sono stati scambiati anche tra Segni e Moro.
A Palazzo Chigi, insieme ai democristiani, si sono presentati fra i primi per felicitarsi con l’on. Segni, la se-natrice Merlin (socialista indipendente) l’on. Cottone, vice-segretario del PLI. e Pacciardi.
La seduta domenicale delle due Camere si è svolta a Montecitorio in un’atmosfera di estrema tensione, di intimidazione e ricatto politico, giunti fino alla aperta corruzione dei deputati democristiani (uno dei quali è stato colto mentre votava una scheda «preparata» da un altro). Segni, che nello scrutinio di ieri aveva perduto 10 voti passando a 389, all’ottavo ne ha guadagnati all’improvviso 35, raggiungendo i 424 voti e mancando l’elezione per sali quattro voti.
I risultati completi dello 8° scrutinio sono stati i seguenti: Segni 424, Saragat, 337, Granchi 20, schede bianche 45, dispersi 17.
Anche prima della votazione, del resto, appariva chiara che dopo il calo di voti di ieri, i dorotei » non avevano perduto il loro tempo, riuscendo, all’interno della DC, a «catturare» i fanfaniani, che hanno oggi votato per Segni. Il fatto nuovo è stato confermato da un colloquio Fanfani-Segni, al termine del quale Fanfani ha accompagnato Segni fino al «Transatlantico», lasciandolo, sotto l’occhio dei giornalisti, con una prolungata stretta di mano. Entrato in aula, poi, Fanfani abbracciava Segni.
Le fasi del «capovolgimento» sono state le seguenti. Dopo un colloquio di Segni con Forlani, (vice-segretario dc, «fanfaniano») si era sparsa la notizia che in ottava votazione i «fanfaniani» avrebbero dato i loro voti a Segni. A chi chiedeva il perché di tale «abbandono», i fanfaniani replicavano stringendosi nelle spalle. Portavoce di Moro affermavano che, nel corso di un colloquio fra il segretario della DC e il Presidente del Consiglio, quest’ultimo aveva preso visione di un vero e proprio «ultimatum» dei «dorotei»: o Fanfani dà l’appoggio a Segni, oppure domani si aprirà la crisi di governo, per le dimissioni dei ministri «dorotei». Moro, a quanto si apprende, avrebbe postillato che alle dimissioni dei ministri «dorotei», si sarebbero dovute fatalmente aggiungere le sue da segretario del Partito. Nello stesso tempo, invece. Moro lasciava senza risposta la polemica lettera indirizzatagli da Saragat – e da noi riportata integralmente in altra parte del giornale – nella quale si compiva, da parte del leader socialdemocratico, un estremo tentativo di accordo.
Su questa base, e con «accordi» fra le parti in lotta (dei quali è prematuro cercare di stabilire la natura), si è arrivati, nel pomeriggio alla ottava votazione che registrava l’improvviso rialzo delle azioni di Segni consolidato poi di un’altra ventina di voti nello scrutinio finale.
Ma a tale fatto politico si è giunti insieme ad altri episodi di carattere assolutamente scandaloso, che hanno dimostrato come la fazione «dorotea» in caso di fallimento della trattativa politica, era decisa a prevalere egualmente, con ogni mezzo. E’ scoppiato cioè Io scandalo delle «schede prefabbricate», che ha gettato una luce ambigua su tutta la votazione, ha provocato incidenti clamorosi in aula, la sospensione della nona votazione appena iniziata, e una deplorazione ufficiale di Leone contro due parlamentari democristiani colti con le mani nel sacco dai deputati dell’opposizione.
I fatti, sono i seguenti.
Non appena proclamato l’esito della ottava votazione, il Presidente Leone, in una atmosfera già tesa e agitata, ha indetto immediatamente la votazione successiva. Un applauso dei d.c. e dei fascisti salutava la decisione. Anche questo procedimento è apparso insolito. Esso infatti più che a una normale prassi parlamentare, corrispondeva troppo esattamente al desiderio espresso con durezza dai «dorotei», di battere il ferro finché era caldo, sperando di poter trascinare al voto gli ultimi esitanti, intimiditi dall’improvviso aumento di voti del candidato ufficiale d.c. Questa era la evidente volontà dl Colombo, capo «doroteo» fra i più intransigenti. Pochi minuti prima della fine dell’ottava votazione, quando già era evidente lo spostamento a favore di Segni, Colombo aveva infatti dato «ordine» che la votazione successiva fosse indetta immediatamente, il che è avvenuto. E a questo punto è scoppiato lo scandalo. Il senatore democristiano Azzara (che è stato nientemeno che Ministro della Giustizia), è stato colto con le mani nel sacco mentre stava deponendo nell’urna una scheda già riempita in partenza, non si sa da chi. La scheda gli era stata consegnata direttamente dal banco della Presidenza, dal senatore d.c. Cemmi, uno dei segretari democristiani della Presidenza e di professione notaio, a Castelboario (Sondrio). Ma l’incredibile fatto si era appena verificato, quando dai banchi delle sinistre sono partite le prime grida di protesta, trasformate si subito in un coro indignato.
Nell’atmosfera di tumulto creatasi, si è visto il Presidente Leone in animato colloquio con i due segretari di sinistra presenti sul banco della Presidenza, Tognoni (PCI) e Guadalupi (PSI). I due parlamentari, dopo avere controllato insieme agli altri membri dell’ufficio di presidenza che in effetti il senatore Azzara, violando la più gelosa prerogativa costituzionale della segretezza del voto, aveva accettato di infilare nell’urna una scheda già riempita in precedenza dagli attivisti democristiani, hanno sollevato in termini fermi la questione. Sia Tognoni che Guadalupi hanno annunciato al Presidente Leone che se non fosse stata immediatamente compiuta un’inchiesta per accertare le responsabilità del grave fatto, essi avrebbero rifiutato di firmare il verbale della votazione, invalidando così lo scrutinio. A questo punto, mentre da tutti i banchi della sinistra continuavano a levarsi le grida di protesta, il Presidente Leone, cha in un primo tempo aveva esitato, ha proclamato la sospensione della seduta. Abbandonata l’aula, egli si è recato nel suo studio, dove ha convocato tutti i presidenti dei gruppi parlamentari per un esame della situazione.
Nella riunione da Leone, i rappresentanti delle sinistre, Togliatti, Nenni, Ingrao ed altri, hanno sollevato con fermezza la questione della mancata segretezza del voto che viene a realizzarsi alla Camera, dove ogni deputato è sotto il continua controllo non solo dei propri colleghi (e nel caso democristiano sotto il controllo della vera e propria «polizia dorotea») ma anche dei teleobiettivi che, come si è visto dai giornali, riescono a (leggere) e fotografare perfino gli appunti che i deputati scrivono sui loro banchi. Un giornale ieri aveva pubblicato la foto di una scheda su un banco, tra le mani di un deputato, sulla quale appariva visibile la scritta Segni. I deputati dell’opposizione hanno chiesto che, per evitare controlli, intimidazioni e scandalosi episodi conte quello rivelato dal caso del senatore Azzara, si provvedesse tecnicamente a rendere più sicuro il voto, installando una cabina dentro cui collocare l’urna. Leone si è opposto per motivi «tecnici» e si è rifiutato di rinviare la seduta di 24 ore.
Leone ha tuttavia accettato di sospendere la seduta per due ore «per — come egli ha detto rientrando in aula — assicurare sempre meglio le norme intese a garantite la segretezza del voto».
Leone ha anche deplorato il comportamento dei due parlamentari d.c. aggiungendo tuttavia che il loro atto non era inteso a violare la segretezza del voto.
La dichiarazione di Leone, in realtà, ha confermato che tale segretezza era stata gravemente compromessa. Infatti tutti avevano potuto «vedere» e capire come aveva funzionato, nelle votazioni precedenti, la pressione in aula della «polizia dorotea» su ognuno dei deputati democristiani. Già da ieri si era sparsa la voce che, per evitare voti contrari, i «dorotei» avevano chiesto che ogni deputato d.c. votasse praticamente allo scoperto.
Benché segreto infatti il voto avviene alla presenza di tutta la Camera, ed è molto facile, se lo si vuole, controllarlo. Tutti i telespettatori hanno potuto vedere, infatti, come votano i deputati. Dato che le schede non sono numerate, ma distribuite in numero libero, era accaduto che molti «franchi tiratori», andassero all’urna con due schede in tasca. Una, sulla quale era stato scritto Segni (da qualcuno del gruppo), un’altra, scritta dal deputato stesso, sulla quale era espresso il voto bianco o contrario. Al momento del voto, molti «franchi tiratori» tiravano fuori dalla tasca la scheda propria, lasciando a dormire l’altra.
Inferociti da questa trucco, i capi dorotei hanno preteso che ogni deputato d.c. si avvicinasse all’urna tenendo bene in vista la scheda per impedire manovre all’ultimo istante. E per essere ben sicuri che si trattasse della scheda «vistata» da Colombo o Rumor, hanno preteso che ogni deputato d.c. ricevesse direttamente la scheda all’ultimo momento in prossimità dell’urna e dalle mani di un loro fiduciario che avrebbe seguito con gli occhi aperti il deputato. Al quale con la scheda in mano, e ben visibile, non restava che compiere solo e soltanto il gesto meccanico di introdurre il foglio dentro il cestino di paglia. In questo modo, con un doppio controllo (la riempitura della scheda e la «osservazione» delle mosse del deputato votante) i «dorotei» sono riusciti a controllare quasi tutti i voti democristiani: i pochi che hanno resistito, lo hanno dovuto fare in aperta opposizione con gli organismi dirigenti del partito.
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Una dichiarazione di Togliatti
Il compagno Palmiro Togliatti, appena conclusa la seduta, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
«Non ho nulla da dire circa la persona del nuovo Presidente che noi, per evidenti ragioni politiche, non abbiamo votato. Credo invece che tutti i partiti dovranno esaminare con attenzione la condotta tenuta nel corso delle successive votazioni dal gruppo dirigente del partito della Democrazia cristiana. Questo gruppo e questo partito hanno dimostrato ancora una volta che essi mirano esclusivamente ad affermare il loro potere esclusivo e sono disposti, per ottenere questo scopo, non solo ad offendere ed umiliare i loro alleati politici, ma persino a compromettere il prestigio delle istituzioni repubblicane.
Il ricorso ai voti della destra monarchica e fascista è un fatto scandaloso, che deve essere denunciato per la sua gravità. Il partito che dispone, con la sua prepotenza, del governo della nazione, non è un partito antifascista. Gli uomini che lo dirigono sono disposti a tutto pur di mantenere il loro potere. Alla luce di questi fatti dovranno essere riesaminati gli stessi risultati del congresso di Napoli, perché mi pare evidente che lo stesso adempimento di quegli scarsi impegni che erano stati assunti dal nuovo governo viene oggi rimesso in discussione, perché è chiaro che è prevalso, nello scontro per la elezione del nuovo Presidente, il gruppo più reazionario della direzione democratico-cristiana. Le forze della sinistra sapranno resistere alla tracotanza di questo gruppo?
«Per quanto riguarda il nostro partito, la nostra condotta è stata coerente e lineare. Non abbiamo posto noi la candidatura dell’on. Saragat. L’abbiamo appoggiata in conseguenza di una scelta di cui nessuno può contestare la legittimità. La forza e il prestigio del nostro partito — che non ha avuto nel corso della lotta nessuna esitazione e nessun tentennamento — escono da questa lotta confermati e accresciuti. E’ stato dato, nel corso delle successive votazioni, un esempio di convergenza di forze democratiche e antifasciste che dovrebbe essere e sarà certamente seguito in altre occasioni».
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Alla vigilia del voto decisivo
Polemica lettera di Saragat a Moro
L’on. Giuseppe Saragat, segretario del PSDI e candidato delle sinistre nelle votazioni per il Presidente della Repubblica, aveva inviato ieri mattina a segretario politico della D.C., onorevole Aldo Moro, la lettera che qui di seguito riportiamo:
« Caro Moro – scriveva Saragat – l’on. Scelba in un colloquio avvenuto a casa mia prima della settima votazione, dopo aver udite le ragioni della mia candidatura e dopo aver inutilmente insistito per il ritiro della mia candidatura a favore di quella dell’on. Segni, congedandosi mi diceva: “La Democrazia Cristiana dovrebbe farti un monumento”. l’onorevole Scelba probabilmente si riferiva alle lotte per la democrazia che il mio partito conduce da 15 anni con un’ abnegazione e uno spirito di sacrificio che non ha riscontro nell’eguale abnegazione e spirito di sacrificio del PRI.
« E sul piano morale l’on. Scelba probabilmente si ricordava che quando si tentò di trascinare la nel fango colpendola con voci calunniose – voci partite purtroppo dal seno della D.C. stessa – nella persona dei familiari del suo attuale presidente, Fui io l’unico tra i capi partito a levarmi per difendere con la verità le condizioni stesse della convivenza democratica che non è lotta senza esclusione di colpi, ma competizione ideale.
«Ebbene – aggiungeva Saragat polemicamente -la D.C., in questo momento, mi sta elevando un monumento: ma un monumento di ingratitudine. Avrei potuto nome di un sano principio di rotazione – per cui dopo un liberale di un democristiano sarebbe opportuno avere al Quirinale un socialista democratico – chiedere alla D.C. di fare propria e la mia candidatura, già fatta propria da tre dei quattro partiti dell’attuale maggioranza. Avrei potuto chiedere alla D.C., dopo l’insuccesso del suo candidato, di riversare i suoi voti su di me. Penso che la D.C. avrebbe avuto l’interesse politico a comportarsi in tal modo. Non ho chiesto e non chiedo nulla di ciò».
La lettera di Saragat così proseguiva: «Ciò che ho chiesto sei mesi fa – prevedendo la grave situazione a cui si andava incontro – e ciò che chiedo con la certezza di essere giusto oggi, è che il candidato della Presidenza della Repubblica sia designato non da un solo partito, ma dall’arco più presto possibile di partiti e in ogni caso dai partiti dell’attuale maggioranza governativa e ciò per evitare fratture pericolose e per garantire l’elezione del Presidente della Repubblica in un’atmosfera di concordia e a grandissima maggioranza.
« Di fronte all’ingenerosa e impolitica intransigenza della D.C. nei miei confronti – precisava il leader del PSDI – riaffermo quindi la volontà di mantenere inviolato il principio che l’elezione del presidente della Repubblica non deve essere il risultato di lotte interne di un partito, ma della concordia dei partiti dell’attuale maggioranza e, se possibile, di una maggioranza ancora più larga. Insisto quindi nel mantenere la mia candidatura. Ma riconfermo anche che se la D.C. Si dichiarasse disposta sedersi intorno ad un tavolo con i rappresentanti del PRI, del PSI e del mio partito per concordare all’unanimità una nuova candidatura, non esiterò un’istante a ritirare la mia a condizione che la D.C. Faccia altrettanto per quella del suo candidato attuale».
A questa lettera non è stata data risposta alcuna, se non la riconferma della decisione della segreteria d.c. di imporre a qualsiasi costo l’elezione di Segni.
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TV bendata
La tv è stata ieri sera protagonista di un episodio scandaloso. I brogli democristiani che hanno portato all’annullamento della nona votazione Ehi sono stati definiti pubblicamente «errori procedurali», sia nel telegiornale delle 20,30 sul primo canale che in quello delle 22,10 sul secondo canale. Del resto, già alle20,15, ora nella quale sarebbe dovuto avvenire il collegamento per la ripresa diretta dell’ultima fase della votazione, l’annunciatrice aveva semplicemente notificato ai telespettatori che il collegamento non sarebbe avvenuto «perché la votazione era stata rinviata». Infine, ripreso il collegamento diretto alle 22,30, il telecronista ha tranquillamente ripetuto, in due parole, la versione dell’«incidente procedurale».
Per ben tre giorni milioni di persone in Italia hanno seguito con emozione e interesse l’immagini delle votazioni sul video: e si sono ritrovati, come è noto, dinanzi a una serie di fumate bianche. Regolarmente, la TV ha ripreso tutte le fasi di queste votazioni. Ma quando è accaduto a Montecitorio l’inqualificabile episodio del senatore Azara, il video era bianco, le telecamere chiuse, e gli annunciatori hanno, poi, dato una falsa versione dei fatti.
Questo è, dunque, il nostro «terzo occhio», come la TV stata chiamata? Eppure, l’episodio Azara e l’energica reazione delle sinistre sono avvenuti appena iniziata la nona votazione, pochi minuti dopo che le telecamere erano state spente. Davvero non si poteva rimetterle in funzione? Gli italiani erano lì, in attesa, e quelli della TV lo sapevano: ma non si sono neppure sognati di dar loro la possibilità di assistere a quanto avveniva a Montecitorio. Altrimenti, come avrebbero poi potuto nascondere come erano andate realmente le cose?
Ora, come va qualificata una televisione che, invece di aprire le sue telecamere i fatti più importanti della vita nazionale, letteralmente chiude gli occhi dinnanzi alla realtà per un’evidente calcolo politico di parte? Questo è un «terzo occhio» bendato: e gli italiani non sanno che farsene.
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Il nuovo presidente
Il nuovo presidente della Repubblica italiana, onorevole Antonio Segni, ha 71 anni: egli è nato a Sassari il 2 Febbraio 1891, da agiata famiglia di origine ligure, proprietaria di vaste estensioni di terra nella Sardegna settentrionale. Laureatosi in giurisprudenza a 22 anni, intraprende la carriera di docente universitario. Vinto nel 1921 concorso per la cattedra di diritto processuale civile presso l’Università di Perugia, da allora ha ininterrottamente tenuto corsi in diversi atenei: a Perugia, Cagliari, Pavia, Sassari. Dal 1954 insegna diritto processuale nella Facoltà di giurisprudenza di Roma.
La sua carriera politica, che doveva successivamente sovrapporsi a quella di studioso, comincia a Sassari. Di famiglia solidamente legata alla Chiesa, fonda il primo circolo di Azione cattolica di Sassari, quindi si iscrive nel 1919 al Partito popolare appena costituito da don Sturzo e diviene nel 1923 consigliere nazionale del partito.
Nel 1942, quando le sorti della dittatura appaiono ormai segnate, egli comincia a le sparse file del movimento politico cattolico in Sardegna e il settembre 1943, quando l’isola è abbandonata dai tedeschi, lo vede capo riconosciuto dei democristiani sardi. In tale veste fa parte della prima Consulta regionale, che doveva gettare le basi del regime autonomistico speciale per la Sardegna.
Nel 1944 Antonio Segni si affaccia alla vita politica nazionale: egli entra infatti a far parte del secondo ministero Bonomi, come sottosegretario alla Agricoltura, carica che mantiene anche nel governo Parri e nel primo gabinetto De Gasperi. Da allora l’on. Segni partecipa quasi ininterrottamente alle diverse formazioni governative, che si succedono in tutti questi anni: siano gabinetti di coalizione centrista, siano «monocolori» democristiani spostati a destra o a sinistra. Volta a volta egli ricopre incarichi diversi: ministro dell’Agricoltura nel governi De Gasperi dal 1946 al 1951, ministro della Giustizia e poi della Pubblica Istruzione, salvo una breve interruzione, dal 1951 al 1954, presidente del Consiglio con l’apporto di liberali e socialdemocratici dal 6 luglio 1955 al 18 maggio 1957, vicepresidente del consiglio e ministro della Difesa nel governo Fanfani-Saragat dopo le elezioni del 1958, di nuovo presidente del consiglio dal febbraio 1959 al marzo 1960, Ministro degli Esteri del successivo governo Tambroni e degli ultimi due governi Fanfani.
Uno dei momenti di maggiore spicco dell’attività governativa dell’on. Segni si ha intorno agli anni 50, quando, sotto la pressione dell’impetuoso movimento dei braccianti e dei contadini e delle popolazioni meridionali, la DC è costretta a mettere mano a uno «stralcio» di riforma agraria, con una legge che porta il nome, appunto, di Segni. prima delle elezioni del 1953, elabora un progetto di riforma dei patti agrari, che egli però abbandona nella successiva legislatura, arrivando al punto, anzi, di schierarsi apertamente contro di esso. Al primo volto di «riformatore», capace di accogliere almeno parzialmente la spinta che viene dalle masse popolari, si sovrappone così, ben presto, il volto di un uomo politico sostanzialmente conservatore, ma dalla tattica e dei modi prudenti, di spirito moderato, capace di destreggiarsi senza compromettersi nella lotta tra le correnti interne dc, e di mantenere rapporti di correttezza anche con i partiti d’opposizione.
A Segni ricorre per tanto la DC, per affidargli la Presidenza del consiglio, in due momenti di particolare difficoltà, come a un uomo politico intorno al quale potesse stabilirsi una certa tregua politica, che sul piano governativo si risolve però in una situazione di immobilismo.
All’inizio del 1960, prima del governo Tambroni, si parla di segni come dell’esponente incaricato di compiere il primo tentativo di un governo di centro-sinistra, ma egli rinuncia subito di fronte ai veti imposti dall’esterno e dall’interno della DC.
Da allora egli ha retto il ministero degli Esteri, presentandosi spesso in una posizione di freno e di contrasto con alcune più avanzate iniziative dell’on. Fanfani (il viaggio a Mosca), per mantenere la politica estera italiana su una linea di subordinazione maggiori «alleati» e di assenza di autonoma iniziativa.
Pur non apparendo in prima fila nelle polemiche interne di partito, l’onorevole Segni si è schierato, nel recente Congresso di Napoli della DC, sulle posizioni dei «, di quel gruppo cioè che appoggia il tentativo di centro sinistra limitandolo però entro un quadro quanto mai ristretto e ambiguo, che lascia un ampio margine di manovra alle destre interne ed esterne della DC.
L’on. Segni è sposato con la signora Laura Carta, dalla quale ha avuto quattro figli maschi: Celestino, Giuseppe Paolo e Mariotto.
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Le ultime battute della elezione del Presidente della Repubblica
Segni ha atteso il 428° voto nello studio di Fanfani
Al nono scrutinio, dopo cinque giornate ininterrotte di votazioni, minacce, di ricatti, finalmente la DC ha dato al paese. assieme alle destre, un Presidente della Repubblica eletto con quindici voti di maggioranza. Quando alle ore 23 e 32 minuti l’onorevole Leoni ha letto la 427esima scheda per l’onorevole Segni missini e monarchici si sono alzati già alzati in piedi in segno di giubilo. La scheda seguente era per l’on. Saragat, seguita subito da un voto per Segni: era il 428esimo voto, quello che proclamava eletto Il Presidente della Repubblica. A questo punto si sono alzati in piedi anche democristiani e liberali. Comunisti, socialisti. socialdemocratici e repubblicani sono rimasti seduti, ma mentre il presidente Leone leggeva le ultime schede che l’avv. Piermani estraeva rapidamente dall’urna. Una scheda bianca, poi Saragat, ancora Segni, Segni, Saragat, Segni e così via fino all’ultima, la 443sima per Segni. A questo punto tutta l’assemblea era in piedi, le sinistre in silenzio.
Ai banchi dei fascisti si sono avute vere e proprie esplosioni di gioia, Michelini stato attorniato ed abbracciato dai suoi. Tra i banchi democristiani si applaudiva e si faceva a gara per arrivare a stringere la mano all’on. Moro e all’on. Scelba che gli era accanto. Anzi, mentre il primo porgeva la mano ai colleghi con la sua consueta mollezza, un pallido sorriso sulle labbra, come sfinito dalla lunga fatica della battaglia, l’on. Scelba paonazzo in volto accettava e ricambiava abbracci, calorose strette di mano, con un entusiasmo che era, del resto, ben giustificato. Uno dei primi parlamentari di rilievo che gli si avvicinava per congratularsi era l’on. Pacciardi, al quale ironicamente il senatore Gombi gridava: «Adesso può fare il colonnello dei corazzieri». Un’altra voce da sinistra aggiungeva: «E farti il quindicesimo appartamento».
Fanfani, che aveva seguito lo scrutinio appoggiato al banco del governo, attorniato da un gruppo di amici fra cui Donat Cattin e Ferrarotti, terminato lo scrutinio ha preso posto tra Taviani e Jervolino, mentre un democristiano affermava ironicamente: «Ci resterà ancora per poco, lì.» e qualcuno faceva già il nome del suo successore.
Nonostante il massiccio apporto dato infatti dai fanfaniano alla elezione di Segni (all’ultimo scrutinio sono 51 le schede bianche e solo 13 i voti «dispersi» fra i candidati minori), la posizione del presidente del consiglio esce infatti dalla battaglia presidenziale tutt’altro che rafforzata. L’on. Preti che ha ascoltato le ultime battute dei risultati elettorali con aria stanca ed avvilita, preconizzava giorni difficili per il Governo.
Quando alle ore 22 sono riprese le operazioni di voto, che erano state interrotte dopo la aperta violazione della segretezza del voto compiuta da un segretario democristiano e dal senatore Azzara, il presidente Leone ha illustrato le nuove norme di votazione: ogni deputato deve restare seduto nell’emiciclo, alzarsi quando viene chiamato, le schede sono state tutte cambiate e stampate su carta giallina. Le operazioni di voto hanno ripreso comunque in un’atmosfera di grande tensione e sospetto. il senatore democristiano Battista che scriveva la scheda appoggiata al banco immediatamente sotto la Presidenza è stato invitato dall’on. Leone a strappare la scheda e riscriverla in modo che non fosse possibile ai colleghi leggerla. Ma il sen. Ferretti ostentatamente ha mostrato la sua al ministro Andreotti scambiandola poi con quella di un senatore democristiano che lo seguiva.
In cinquanta minuti, esattamente la metà del tempo che fu necessario mercoledì, la «chiama» è finita e il presidente Leone ha annunciato, come di consueto, che procederà egli stesso al computo dei voti. Una novità: ha invitato i deputati a sgomberare l’emiciclo, e poiché molti vi si attardavano, ha sollecitato i questori a portare l’ordine nella sala «con il consueto garbo».
Ormai siamo entrati nell’ultima, più drammatica fase di queste cinque giornate: dopo cinque minuti di spoglio, Segni ha ottenuto 55 voti, Saragat 39. Sono state aperte complessivamente 100 schede, il che significa chi segni supera già il cinquanta per cento dei voti. Alle ore 23 esce la prima scheda per Gronchi, poco dopo la prima per Merzagora. Ma è chiaro che molti «dissidenti» sono rientrati nell’ordine.
Quando sono scrutinate 390 schede Segni è chiaramente in testa.
Quando Segni ha raggiunto quota 400, l’aula comincia a seguire lo scrutinio contando a mezza voce, assieme al presidente, ogni scheda per Segni: ne escono 13 di fila con il suo nome, poi Saragat, poi Segni ancora per 5 volte, poi Saragat. Quando Segni ha raggiunto i 424 voti (quelli che aveva ottenuto all’ottavo scrutinio) esce un voto per Merzagora, poi una scheda bianca, una per Segni, una per Saragat, due per Segni. Siamo a 427. I missini e i monarchici si alzano già in piedi. Poi un voto per Saragat e infine il 428esimo voto per il Presidente.
Immediatamente dopo si è proceduto alla proclamazione ufficiale. letti i risultati complessivi, alle 23, 40 l’on. Leone ha dichiarato con la formula di rito: «Proclamo eletto presidente della Repubblica l’on. Prof. Antonio Segni.
Segni che durante tutta la giornata aveva ostentato grande sicurezza, aveva seguito i risultati nella stanza del presidente del Consiglio a Montecitorio; di lì, appena conosciuto l’esito favorevole, era passato a Palazzo Chigi dove ha ricevuto poco prima di mezzanotte i due presidenti delle Camere, Leone e Merzagora. Grande folla di amici e parlamentari si è stretta attorno a lui, quando è uscito. Tra gli altri l’on. Pacciardi chi è stato il primo a congratularsi molto calorosamente con lui. Assieme a Pacciardi, anche il repubblicano Sanfilippo ha voluto essere tra i primi a salutare il neo presidente. Infine tutti i presenti hanno brindato con champagne e gridato «Viva l’Italia». L’on. Segni infine dando prova divisibile commozione, prima di uscire da Palazzo Chigi, ha espresso il desiderio di gettare ancora una volta lo sguardo sull’aula del Consiglio dei Ministri. Fanfani, che era al suo fianco, lo ha sollecitamente preceduto, ma non ha trovato subito l’interruttore della luce, e ha rischiato di inciampare nel tappeto. Privo di quest’ultima consolazione l’on. Segni è dunque dovuto uscire, per l’ultima volta, da Palazzo Chigi.
Miriam Mafai
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Dopo l’elezione
Primi commenti dei leaders
Dichiarazioni di Nenni, La Malfa, Zaccagnini e Gava – Un freddo telegramma inviato da Saragat a Segni
Subito dopo l’annuncio dell’avvenuta elezione del Presidente Segni, i giornalisti hanno avvicinato nel «transatlantico» i maggiori esponenti del vari partiti, per raccogliere i loro primi giudizi sull’avvenimento.
L’on. Pietro Nenni ha dichiarato: «I socialisti non erano impegnati in una lotta di persone e possono quindi in tutta tranquillità e serenità formulare per il nuovo Presidente l’augurio che egli, nell’adempimento delle sue alte funzioni, sia soltanto rappresentante dell’unità nazionale.
«Il PSI – ha aggiunto Nenni – aveva sostenuto la necessità di un accordo tra partiti. che consentisse l’elezione di un Presidente, il (!quale traesse da una maggioranza democratica il prestigio di cui ha bisogno. Non possiamo che deplorare che questo non sia stato reso possibile. Crediamo che se ne rammaricherà assieme a noi una larghissima parte del Parlamento e del Paese».
Anche il segretario del PRI ha rilasciato una dichiarazione. «Quando il contrasto – ha detto l’on. Reale – tra le candidature proposte, entrambe legittime, è apparso insanabile e prima delle due votazioni di oggi si è presentata alla DC la scelta tra la nomina con larghissima maggioranza di un Presidente al di sopra dei contrasti politici più aspri e la nomina del suo candidato ufficiale con lieve margine di maggioranza, comprendente voti non tutti certamente graditi alla stessa DC, questa ha preferito la seconda soluzione. Il telegramma di felicitazioni che ho inviato a nome del mio partito al Presidente eletto dimostra che ogni giudizio personale era estraneo alla soluzione da noli caldeggiata e che il nostro sincero augurio accompagna ormai l’opera dell’on. Segni nella più alta magistratura della Repubblica». Il ministro repubblicano La Malfa ha osservato che la «lunga e tormentata elezione è stata dominata dalle «ragioni di equilibrio interno» della DC. e che e «i partiti della sinistra non potevano che mantenere rigorosamente estranei a tale problema interno, votando però per un candidato «che esprimesse e sottolineasse le esigenze di rinnovamento» della politica di centro-sinistra.
«Il nuovo Presidente – ha aggiunto La Malfa – sentirà certamente che le difficili circostanze di questi giorni e il carattere delle votazioni non hanno alterato in nulla il significato e il valore di una aspirazione democratica e popolare, che si è espressa attraverso la svolta del centro-sinistra, e che dovrà trovare definitiva conferma negli avvenimenti del prossimi giorni».
Il leader socialdemocratico, on Saragat, sì è limitato a inviare al nuovo Presidente un freddo telegramma, per augurargli «un felice settennato per le sempre maggiori fortune del Paese».
«Siamo soddisfatti», hanno detto invece presidenti dei gruppi parlamentari sen. Gava e on. Zaccagnini. Essi hanno aggiunto che la DC «ha sempre ritenuto l’onorevole Segni degno di ricoprire l’altissimo ufficio per la difesa e l’attuazione della Costituzione con spirato di larga apertura ufficiale. Ne fanno fede le doti personali di dirittura morale e politica, che tutti riconoscono in Antonio Segni, e che nel suo passato ha costantemente e coerentemente confermato».