L’elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana su
l’Unità
ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 40 * * Anno XXXIX / N. 121 / giovedì 3 maggio 1962
MARIO ALICATA Direttore
LUIGI PINTOR Condirettore
TADDEO CONCA Direttore responsabile
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Oggi alle 16 la quarta votazione per il Presidente
Il candidato d.c. Battuto per tre volte
Alla terza votazione, il PCI vota per Saragat che raggiunge 299 voti contro i 341 di Segni
Tre votazioni nulle, ieri a Montecitorio, per la elezione del nuovo presidente della Repubblica, non avendo nessuno dei candidati raggiunti il quorum di due terzi dei voti (570) fissato dalla Costituzione. I deputati, senatori e delegati regionali «elettori» sono stati perciò nuovamente convocati in seduta comune per questo pomeriggio, alle ore 16, per la quarta e le successive votazioni: Il quorum di maggioranza è da oggi di 428 voti, cioè la metà più uno degli elettori.
Ecco in sintesi le tre votazioni di ieri:
1^ votazione
Votanti 834 (assenti 18 Leone e Merzagora non hanno votato)
Segni 333
Terracini 200
Pertini 120
De Marsanich 46
Saragat 42
Gronchi 20
Piccioni 12
Paolo Rossi 10
Schede bianche 43
Voti dispersi 8
2^ votazione
Votanti 831 (assenti 21 Leone e Merzagora non hanno votato)
Segni 340
Teracini 196
Saragat 92
Piccioni 41
Lauro 38
Gronchi 32
Merzagora 12
Schede bianche 65
Voti dispersi 15
3^ votazione
Votanti 842 (assenti 10 Leone e Merzagora non hanno votato)
Segni 344
Saragat 299
Piccioni 54
Gronchi 44
Giochino Volpe 37
Merzagora 13
Schede bianche 16
Voti dispersi 14
Il vano tentativo di Moro di imporre alla DC e alla maggioranza governativa il candidato più lontano dal centro-sinistra: una replica dei diversi settori di sinistra, che, pur divisi, fino alla terza votazione hanno fatto fallire Segni, candidato di Moro e dei liberali: questo virgola in sintesi, il senso della prima giornata di elezioni per la Presidenza della Repubblica, chiudersi con un nulla di fatto dopo la terza votazione a maggioranza qualificata.
la giornata avveduto fuori dell’aula, succedersi le riunioni dei direttivi dei gruppi. Dopo la prima votazione, che ha dimostrato l’esistenza nella DC di un folto gruppo di parlamentari (più di 60) non disposti a votare Segni, una dichiarazione di Zaccagnini richiamava i deputati e senatori del suo partito al dovere di votare per il candidato ufficiale della DC. Ma anche nel secondo scrutinio, e nonostante l’apporto dei voti liberali, Segni registrava una seconda sconfitta. Guadagnando infatti solo 7 voti fra il primo e il secondo scrutinio (nel quale aveva ricevuto più di 20 voti liberali), risultava chiaro che Segni aveva perduto altri voti democristiani, circa quindici. In totale il numero dei dc votanti contro il candidato ufficiale saliva a più di 80.
Nel settore di sinistra, oltre alle due successive massicce affermazioni sul nome di Terracini (e, nel primo scrutinio, anche sul nome di Pertini, votato dai socialisti), in terza votazione si registrava un balzo in avanti della candidatura di Saragat. Ciao è stato dovuto all’intervento dei duecenro voti comunisti, intesi a marcare non solo l’opposizione più netta al candidato ufficiale della DC e di una larga parte della destra, ma anche a sottolineare la possibilità di una soluzione positiva, attraverso un voto unitario dei settori di sinistra. Ciò è emerso con tanta maggiore chiarezza in quanto, nella seconda votazione, il volto socialista si è diviso, in parte sul nome di Saragat, in parte in schede bianche.
Dalla prima giornata, oltre a nome di Gronchi, che ha riscosso una parte dei voti dei dissidenti democristiani, si è profilata la possibilità di una candidatura Piccioni. Sul suo nome, nella seconda votazione, sono confluiti – in parte da settori dc in parte dalla destra – quarantuno voti. La voce sparsa nei corridoi di Montecitorio che Moro avrebbe presentato come secondo candidato Piccioni, in caso di definitiva caduta di Segni, trovava così una qualche conferma, anche per l’incerto atteggiamento su tale prospettiva manifestato ad alcuni settori «autonomisti» del PSI.
Il proposito di Moro, tuttavia è seriamente ostacolato dall’atteggiamento di difesa «ad oltranza» assunto dai dorotei attorno alla candidatura di Segni. Alcune agenzie hanno riferito la dichiarazione di un’esponente doroteo membro della Direzione dc , Con la quale si afferma che se Segni cadrà, i dorotei chiederanno la convocazione dei gruppi parlamentari per mettere in minoranza il governo.
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La battaglia per il Quirinale
UNA CONSIDERAZIONE non può non essere fatta sulla prima giornata di votazioni per la elezione del Presidente della Repubblica, ed è che l’andamento di queste votazioni conferma la confusione, i contrasti, le ambiguità esistenti nelle file della Democrazia cristiana e che caratterizzano il governo di centro-sinistra. Già il fatto che il governo, cioè l’attuale maggioranza parlamentare, non abbia saputo esprimere un proprio candidato comune è altamente significativo. Ma che, in più, a soli due mesi di distanza dal Congresso di Napoli, gli organismi dirigenti della Democrazia cristiana si trovino nell’impossibilità di sostenere un candidato, proprio o appartenente ad altre formazioni politiche, ma tale comunque da dare al Paese e al Parlamento garanzia che il nuovo corso politico, appena e con tanta timidezza e cautela iniziato, non sarà arrestato o addirittura volto all’incontrario, dimostra quante ipoteche, e di quale natura, pesino sul cosiddetto «rinnovamento» promesso dall’on. Moro. Sia che la segreteria d.c. non abbia la forza di imporre oggi alla destra del suo partito un candidato non estraneo alla politica di centro-sinistra, sia che questo orientamento nella elezione del Presidente della Repubblica sia stato da essa patteggiato già a Napoli per ottenere una momentanea e fittizia unità, in entrambi i casi ciò non può non significare che il governo di centro-sinistra, e i suoi propositi programmatici, si fondano su basi assai fragili e precarie. E questo, alla vigilia di decisioni che dovrebbero essere le prime a qualificarne seriamente la politica e che invece, e non a caso, già fanno apertamente parlare – come a proposito della questione dell’energia elettrica – di rinvii, di ripensamenti, se non addirittura di crisi.
DI PRONTE a questo atteggiamento del governo e degli organismi dirigenti della Democrazia cristiana, c’è anche da notare purtroppo che, almeno nella prima giornata di votazioni, la sinistra nel suo insieme non ha potuto muoversi con l’unità, la sicurezza di obiettivi, la conseguente capacità di manovra che seppe dimostrare sette anni fa, quando, appunto unita, essa riuscì a sconfiggere quello che era il candidato ufficiale non della Democrazia cristiana soltanto, ma del governo quadripartito centrista allora in carica. Il perno di quella unità fu, allora, il fatto che nessuno poteva illudersi di attrarre in una manovra ambigua o in un compromesso equivoco un’ala della sinistra operaia. Oggi invece si fa ancora una volta sentire, e in un’occasione politica decisiva, quanto sia nefasta una divisione delle forze di sinistra per permettere davvero anche un minimo spostamento a sinistra nella situazione del Paese.
Ciò che bisogna ora cercare di impedire, nella seconda fase della battaglia per il Quirinale, è che la confusione, i contrasti, le ambiguità esistenti nelle file della maggioranza governativa, cosi come le debolezze palesatesi nello schieramento della sinistra, portino ad una soluzione del problema che, comunque mascherata, significhi in sostanza una vittoria della destra e rappresenti un punto, se non molti punti, perduti da coloro che auspicano un qualche cosa di nuovo, sia pur limitato, nella vita del Paese.
ALLA FINE della prima giornata di votazioni, il Parlamento è apparso diviso in sostanza intorno a due candidature: una di sinistra, l’altra di destra. A questo punto, si dice, si impone una scelta, e la ricerca di una candidatura che possa risultare largamente unitaria. D’accordo. Ma in primo luogo occorre che la posizione della sinistra appaia ferma e chiara. Non è possibile che una parte della sinistra, dietro l’alibi di non voler compromettere in nessun modo l’attuale formazione governativa, favorisca quella che è stata fino ad oggi la candidatura di destra ufficiale o, andando incontro ai sottili giuochi di equilibrio in cui è maestro l’on. Moro, una candidatura di destra di riserva.
Mario Alicata
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Pronto soccorso?
Non solo in Parlamento, in occasione del voto per il Quirinale, si vede quanto rilevante sia il peso dei comunisti e quanto assurda sia la tesi di chi ci vorrebbe fuori gioco o ai margini del gioco. Lo si vede anche, con sempre maggior chiarezza, al livello di governo, via via che maturano le questioni sulle quali il centro-sinistra dovrà caratterizzarsi in un senso o nell’altro: a cominciare dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, per esempio.
Il giornale dell’on. La Malfa a gettato in proposito un grido d’allarme, denunciando le resistenze della Confindustria e l’opera di «convincimento» che i dirigenti confindustriali stanno svolgendo Nei confronti dei ministri e in particolare del ministro Colombo: il quale si è già fatto «convincere», a quanto pare, se è vero che ha mandato all’aria la riunione del comitato interministeriale che avrebbe dovuto discutere la nazionalizzazione e le sue modalità. Sicché giornale dell’on. La Malfa ha rivolto un incitamento a tutte le forze della sinistra e quindi anche alle nostre perché – senza mettere troppa carne al fuoco – concentrino la propria azione e pressione sui punti più impegnativi e più qualificanti del programma governativo a cominciare, appunto, della nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Lo strano, però, e chi ci si rivolga a noi e ci si ricordi della nostra forza solo quando le cose volgono al peggio: è una contraddizione tipica del centro-sinistra, anche della sua parte meglio intenzionata. Quando per esempio i fascisti rialzano la testa e c’è bisogno di una reazione vivace, ecco che ci si augura che i comunisti accorrano in forze nelle piazze a dar sostanza all’unità antifascista: poi, quando il pericolo diventa meno evidente, si vorrebbe meno evidente anche la partecipazione comunista alle manifestazioni di unità! E così e per la nazionalizzazione dell’energia elettrica o altri punti nevralgici del programma di governo: che il centro-sinistra presume di poter affrontare da solo o addirittura in chiave anticomunista fino a quando i fatti – più testardi di ogni pregiudizio o formula – dimostrano che senza una pressione unitaria tutto rischia di naufragare o di avere sbocchi reazionari.
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La DC divisa ha tentato invano di imporre Segni
Il movimentato retroscena delle tre votazioni
Oggi pomeriggio, avrà luogo a Montecitorio la quarta votazione per la elezione del Presidente della Repubblica. La votazione sarà a maggioranza semplice (la metà più uno dei votanti), dato che le prime tre votazioni (a maggioranza di due terzi) avutesi nella giornata di ieri, non hanno dato a nessun candidato la maggioranza richiesta.
Un breve giudizio sulla prima votazione è stato rilasciato Ieri dal compagno Togliatti:
«Il risultato del primo scrutinio – egli ha detto – apre parecchie prospettive interessanti, anche al di fuori del candidato ufficiale della DC». Sull’esito del primo scrutinio che aveva dato la netta sensazione di una divisione notevole nella DC (nella quale oltre 6O deputati non si erano attenuti alla decisione di votare Segni) interveniva, parte dc, una dichiarazione dell’on. Zaccagnini, presidente del gruppo alla Camera.
«Non vi è dubbio – affermava seccamente Zaccagnini – che il candidato della DC è e rimane l’on. Segni. Senatori e deputati dc sono impegnati dunque a sostenere compatti la sua candidatura». Tale posizione, che esprime quella segreteria DC e del gruppo doroteo. veniva confermata dall’on. Cossiga: «Faremo quadrato intorno a Segni, a oltranza», ha detto il parlamentare sardo. Egli ha aggiunto che le defezioni nel gruppo dc erano «chiaramente identificabili», alludendo soprattutto ai parlamentari delle sinistre d.c.
Tale giudizio, veniva nel corso della giornata contestato da diversi deputati delle sinistre dc, che scaricavano sui «dorotei» la responsabilità di non aver votato Segni, per «provocare» la sinistra.
Per dare un’idea del clima piuttosto rovente creato dal contrastalo voto dc a Segni, valgano due episodi che hanno avuto come protagonista l’onorevole Donat Cattin. ln mattinata il leader di «rinnovamento» ha avuto un vivace scontro nel Transatlantico con il ministro doroteo Colombo, accusato dall’agenzia della corrente di «rinnovamento» di aver ostacolato apertamente la nazionalizzazione della energia elettrica, bloccando la discussione sull’argomento, al fine di sabotare il centrosinistra. Colombo ha smentito recisamente tale suo atteggiamento, e Donat Cattin ha replicato invitando il ministro a dare alla sua smentita valore di pubblica dichiarazione. Nel pomeriggio. dopo la prima votazione. Donat Cattin è stato rimproverato da Moro, nel corso di un incontro, per aver votato contro Segni. Ma il deputato torinese ha replicato esibendo prove della sua disciplina nel voto.
Scende Segni sale Gronchi
La seconda votazione ha dimostrato che il processo di deterioramento della maggiorana per Segni è andato aumentando. Riuniti i liberali, a pranzo, essi hanno deciso dl votare tutti per Segni. Ciò avrebbe, ovviamente, dovuto aumentare di almeno 28 i voti per il candidato dc. Invece, in seconda votazione, Segni riscuoteva appena sette voti in più della prima, passando da 333 a 340 voti. Essendo la sua disponibilità di 428 voti, Io scacco era evidente e anche il numero dei suoi oppositori d.c. si manifestava in aumento, passando a 84. Aumentavano i voti di Gronchi (passato da 20 a 32) e quelli di Piccioni (passato da 12 a 41). Appariva evidente quindi che l’orientamento dei dissidenti dc era tutt’altro che mutato. A questo punto nella d c. Io scontro è cominciato ad acutizzarsi. Moro, convocava ancora Donat Cattin e Forlani, minacciando le dimissioni in caso di ulteriore atteggiamento dissidente delle «sinistre». ln una riunione alla Camilluccia, mentre si respingeva un gesto di Segni tesa a «rinunciare», si confermava che la DC avrebbe sostenuto il suo candidato «a oltranza». Veniva respinta anche l’offerta di Piccioni di subentrare a Segni in terza votazione, il che provocava aspri commenti del Presidente del Consiglio nazionale della DC. Negli ambienti di Montecitorio tali «ferme» decisioni di Moro venivano presentate come frutto di una fondata speranza del segretario d.c. di veder alla fine convogliare anche il voto socialista sul nome di Segni.
Va aggiunto che anche una offerta missina e monarchica a Segni è stata trattata. Secondo voci accreditate Segni avrebbe rifiutato il voto missino per la terza votazione, riservandosi di accettarlo nella quarta e oltre.
Nel gruppo socialista, la discussione sulla votazione ha visto momenti di vivace dibattito, a proposito, soprattutto, della posizione da assumere nei confronti della candidatura di Saragat. Su tale candidatura il gruppo socialista si è diviso. Nella seconda votazione, infatti, Saragat riscuoteva 92 voti. Solo una parte della corrente «autonomista» (la «sinistra», da parte sua, aveva fin dall’inizio annunciato la sua intenzione di votare contro) votava a favore del leader del PSDI. Veniva cosi a crearsi una difficile situazione, che pregiudicava fin dal secondo scrutinio la possibilità di far emergere, in contrapposizione alla candidatura del- la DC e dei liberali. una candidatura capace di prospettare uno schieramento di forze diverso, orientato dai gruppi della sinistra. Alla necessità di un voto a sostegno di una candidatura di «centro-sinistra» si era rifatto anche La Malfa che, prima della seconda votazione, aveva invitato per lettera Nenni a votare per Saragat. Dopo il voto, accolto da Saragat e dalle «terze forze» con visibile insoddisfazione, La Malfa ha rilasciato una dichiarazione nella quale invitava la sinistra socialista a un ripensamento in favore della candidatura Saragat, «scelta conseguenziale ed obbligata da valutarsi rispetto alle alternative disponibili». Si è avuta una nuova riunione del gruppo socialista e in questa sede, a maggioranza, è stato deciso di ripetere il voto per Saragat, in terza votazione. Nenni ha fatto appello alla disciplina di gruppo e la sinistra ha ribadito che il voto disciplinato di tutto il gruppo poteva ottenersi sul nome di un’altra personalità che non fosse quella di Saragat.
Da parte comunista, mentre in seconda votazione veniva ripetuto il voto sul nome di Terracini, in terza votazione si decideva di appoggiare la candidatura di Saragat, come quella che più evidentemente tendeva a marcare la ricerca di una soluzione positiva, nell’ambito di uno schieramento unitario di forze di sinistra, in opposizione netta al chiaro intento della DC di riproporre, con l’appoggio dei liberali. un proprio candidato al di fuori di una seria trattativa perfino con i gruppi della maggioranza di centro sinistra.
Discussione nel PSI
In terza votazione la situazione presentava una ulteriore diminuzione dei voti d.c. per Segni: aumentato il numero dei votanti di 11 (da 831 a 842) Segni riportava soltanto un voto in più (341 invece di 340). Con 51 voti a Piccioni, 44 a Gronchi, e 13 a Merzagora, il voto d.c. appariva ancor più frazionato e mescolato a quello di vari settori di destra. Il numero dei «no» a Segni cresceva di diverse unità.
Il fatto nuovo nella terra votazione era dato dal massiccio voto della sinistra per Saragat che passava di colpo al secondo posto con 299 voti, dovuto al voto del gruppo comunista unitosi a quello dei socialisti (tranne la sinistra che ha votato scheda bianca) e al voto dei repubblicani e dei socialdemocratici.
La terza votazione, dunque, stabiliva ancora una volta l’insuccesso della imposizione di Moro, frutto evidente di una trattativa risalente al Congresso di Napoli, tra Moro e la destra. La giornata si chiudeva così con un nulla di fatto e con le porte ancora aperte a diverse soluzioni. Pur gravemente pregiudicata la candidatura Segni tiene ancora. Cosi come aperte sono le possibilità sia per Piccioni, Gronchi e Fanfani. come per altri «outsiders» (Leone. Merzagora), possibili «salvatori» dell’ultimo minuto.
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Sfilavano 10 elettori al minuto
L’on. Moro aveva dimenticato la scheda
Azalee rosa, guide di velluto rosso, valletti in uniforme di gala davano agli ingressi, ai corridoi, al Transatlantico di Montecitorio un’aria insolita, nella giornata di ieri. Il traffico delle macchine sul Corso veniva deviato da agenti della stradale e da vigili, l’accesso a Piazza Colonna e Montecitorio era consentito soltanto alle macchine dei «grandi elettori» ed alla piccola folla di cittadini che, davanti all’ingresso deI Parlamento, assistevano all’ arrivo dei deputati, senatori e delegati regionali.
Una giornata di lavoro intenso per i parlamentari, convocati per tre volte, alle 10,30 di mattina, alle 15.30 e poi ancora alle 18.30. Nelle prime tre votazioni per la elezione del Presidente della Repubblica è necessaria la maggioranza qualificata dei due terzi, pari a 570 voti: come era da prevedersi, il «quorum» non è stato raggiunto da alcuno dei candidati.
Il braccio di Folchi
Sono le 10.30 precise quando l’on. Leone, ai cui fianco siede l’on. Merzagora, apre la seduta. Sul tavolo immediatamente sotto la presidenza è deposta la grande urna di vimini dorata, foderata di raso verde, nella quale ogni parlamentare dovrà deporre tra qualche istante la sua scheda. Nell’aula, nella quale i posti a sedere sono insufficienti, nonostante un centinaio di poltroncine siano state aggiunte, si affollano deputati e senatori, la maggioranza dei quali severamente vestita di scuro. Tra le deputate, solo la democristiana Gennai Tonietti e la comunista Viviani indossano abiti chiari: tutte le altre sono in blu. Una piccola folla elegante si assiepa nelle tribune riservate al pubblico ed al corpo diplomatico.
Le operazioni di voto si ripetono per tre volte nella giornata. Nelle prime due è l’on. Guadalupi, nella terza l’on. Tognoni a chiamare ad alta voce, in ordine alfabetico, i grandi elettori, prima i senatori, poi i rappresentanti regionali, infine i deputati. Ognuno di essi si alza dal suo posto e, la scheda in mano, si avvia al tavolo dove è deposta l’urna, sale sulla pedana vigilata da duc commessi e procede, sotto lo sguardo dei colleghi e l’occhio delle telecamere, fino a deporre il suo voto nel cesto dorato. L’operazione procede abbastanza speditamente: votano dieci elettori al minuto in media, quindi occorre esattamente un’ora e mezzo per la chiama completa. Ma ci sono deputati e senatori che ci impiegano certamente di più: mettiamo tra questi il monarchico Degli Occhi che si è soffermato a scambiare qualche parola con il presidente Leone. l’on. Folchi che, con il braccio al collo, ha avuto difficoltà a ficcare la scheda nell’urna, l’on. Ermini che ha alzato la sua scheda con incomprensibile gesto di fierezza, l’on. Codignola che ha cercato a lungo tra le carte che aveva in tasca prima di trovare la scheda. Il sottosegretario Russo, che quasi colto da pentimento, ha riletto la sua con attenzione prima di farla cadere nell’urna. Nenni., Togliatti, Pertini, Terracini, Fanfani, Malagodi, Piccioni hanno votato rapidamente. L’on. Moro invece era entrato in aula senza la scheda, e solo pochi istanti prima di essere chiamato se né ricordato, è tornato indietro, ne ha cercata ed ottenuta una e l’ha riempita appoggiato al banco del governo. Uno scambio di cortesie tra l’on. Saragat e Segni ha avuto luogo sotto il ronzio delle telecamere nel corso della prima votazione. Mentre Saragat votava, Segni che si accingeva a sua volta a salire sulla pedana, gli è andato incontro e gli ha stretto affettuosamente la mano. (La scena non si è ripetuta alle successive votazioni).
Risate per Pacciardi
Alle 11,55, dichiarata chiusa la prima votazione, la grande urna è stata aperta a metà, quasi un enorme uovo di Pasqua dal quale il segretario della Camera. avvocato Piermani, ha estratto una ad una le schede porgendole all’on. Leone. Il primo nome che è risuonato nell’aula, fattasi attenta e silenziosa, (si ode persino, distintamente il frusciare delle schede mentre vengono attentamente spiegate da Piermani) è quello di Terracini. Poi ancora Terracini. Un terzo e un quarto voto sono per Terracini, candidato in questa prima votazione del Partito Comunista. La quinta scheda è per Piccioni, la sesta e la settima per Segni. L’ottava per De Marsanich, la nona per Pertini, la decima per Saragat. Passeranno sotto le mani dell’on. Leone circa duecento schede prima che esca il nome di altri due candidati non ufficiali: quello dell’on. Gronchi e quello dell’on. Paolo Rossi. Su una scheda il nome dell’on. Segni è scritto così piccolo che l’on. Leone classifica la scheda come bianca poi si riprende e corregge. Terracini, Segni, Terracini, Segni, Sono questi i nomi risuonano ormai più frequentemente nell’aula. Dei candidati solo Terracini in aula, seduto nel settore di estrema sinistra, nel terzultimo banco dall’alto. Saragat. Segni e Piccioni sono assenti. A mezzogiorno, dopo circa un’ora di scrutinio Gronchi ha ottenuto sei voti: quattro Piccioni, sei Paolo Rossi, uno Merzagora. Lo scrutinio procede lentamente. I nomi di Segni, dl Terracini, di Pertini vengono ripetuti decine e decine di volte. Qualche commento accoglie il voto che ha ricevuto l’on Pella, molte le risate quando dall’urna un voto per l’on. Pacciardi, un voto ha ottenuto anche Arturo Carlo Jemolo, e due il senatore Medici.
AI secondo scrutinio un voto ha ricevuto anche l’on. Tartufoli, ed è stato accolto con un ironico applauso dell’assemblea. Un parlamentare ha deposto nell’urna, invece della scheda, una lettera piegata in quattro. «Per rispetto del segreto epistolare non la leggiamo e consideriamo il voto nullo» ha commentato il presidente Leone. Anche i «grandi elettori» sono distratti.
Miriam Mafai
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Valida la presenza dei delegati delle Regioni alla votazione per il Presidente
Un incidente verificato ieri mattina durante la seduta del Parlamento dedicata alla elezione del Presidente della Repubblica.
Il presidente Leone, prima di indire la votazione, ha dato alla Camera di una lettera a lui inviata il 20 marzo
scorso dai capigruppo missini, con la quale essi protestano per il fatto che stano stati invitati a partecipare alla elezione i delegati dei consigli regionali delle Regioni a statuto speciale già costituite. L’on. Leone, dopo avere illustrato motivi che hanno spinto la Presidenza prendere tale decisione, ha dato la parola al missino Roberti che ha dichiarato il suo dissenso sia per la decisione sia per la sua motivazione.
I deputati comunisti hanno protestato in aula, ed hanno ribadito. nella giornata, la propria protesta per il fatto che Presidente on. Leone abbia consentito al rappresentante del MSI di prendere la parola.
«I comunisti sottolineano – afferma il comunicato – la piena validità costituzionale della presenza al voto per l’elezione del Presidente della Repubblica dei delegati delle Regioni già esistenti e ricordano che non possono oggi partecipare a questo voto delegati di tutte le regioni come prevede la Costituzione per il motivo che all’attuazione di questa parte della Costituzione repubblicana si sono costantemente opposte proprio le forze di estrema destra e del partito dc.
I gruppi parlamentari comunisti inoltre protestano – prosegue il comunicato – perché stato impedito agli altri gruppi di prendere la parola dopo che era concessa al solo rappresentante del Movimento sociale, privando di fatto il Parlamento del suo diritto di discutere e respingere la assurda pretesa dell’estrema destra».