La elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana
L’UNITÀ
ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 200 * * Anno LV / N. 163 / lunedì 10 luglio 1978
ALFREDO REICHLIN Direttore
CLAUDIO PETRUCCIOLI Condirettore
ANTONIO ZOLLO Direttore responsabile
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Il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Pertini
Concordia e unità nel nome della Resistenza
«Farò quanto mi sarà possibile perché l’unità nazionale, di cui la mia elezione è espressione, si consolidi e si rafforzi»
Nessun cedimento alla violenza: «Dobbiamo difendere la Repubblica, costi quel che costi alla nostra persona»
Le esigenze di libertà e di giustizia e la sete di riforme dei lavoratori – Preoccupazione per la disoccupazione giovanile
Appassionato richiamo alle figure storiche dell’antifascismo – Omaggio a Moro – Molti gli applausi dell’assemblea
ROMA – Nel nome dell’unità nazionale Sandro Pertini ha assunto ieri mattina la pienezza delle sue funzioni di capo dello Stato. Proprio nel segno di questa unità – e nell’ auspicio che essa si consolidi e si rafforzi — il settimo presidente della Repubblica italiana ha pronunciato davanti alle Camere riunite un forte e appassionato discorso d’insediamento dopo aver giurato di «essere fedele alla Repubblica e di osservare lealmente la Costituzione» Malgrado la complessità (e anche gli aspetti rituali) del cerimoniale d’insediamento, la giornata di ieri — a Montecitorio prima, e poi al Quirinale — ha avuto un’impronta tutta particolare, tutta segnata dalla personalità stessa di Sandro Pertini, dalla sua schiettezza, dal rifiuto di qualsiasi separatezza tra l’uomo — il militante socialista, il protagonista appassionato di mezzo secolo di battaglie per la democrazia — e l’altissimo incarico cui è stato chiamato con così alti consensi dal Parlamento.
Lo si è visto sin dalle prime battute della breve seduta dedicata appunto all’insediamento ufficiale del capo dello Stato. Pertini, che pochi istanti prima era giunto a Montecitorio dalla sua abitazione di via Cristoforo Colombo, ha varcato una delle porte laterali dell’aula della Camera alle 11.30 in punto tra lo scrosciare degli applausi di tutti meno, ancora una volta dei neo fascisti. Il presidente della Repubblica ha accennato qualche gesto di saluto con la mano. Gli applausi insistevano. Lui ha alzato le braccia commosso, salendo sveltamente pochi gradini per raggiungere il banco della presidenza. L’aula era addobbata con grappoli di bandiere tricolore e con drappi di velluto rosso, simili agli arazzi rosso oro stesi alle finestre di palazzo Montecitorio. Accanto a Pettini sedevano Ingrao e Catellani. Il presidente della Camera lo ha invitato subito a prestar giuramento. La mano destra su una copia della Costituzione rilegata in marocchino blu, Pertini ha recitato la formula di rito tra nuovi applausi dei senatori, dei deputati e dei delegati regionali che lo avevano eletto l’altra mattina, e mentre dall’esterno giungeva l’eco dei festosi rintocchi delle campane del «Torrino» di Montecitorio e delle salve del cannone del Gianicolo.
A questo punto Pertini ha tratto di tasca alcuni fogli, sette cartelle, per leggere il tradizionale messaggio con cui il presidente neo eletto suole rivolgersi alle Camere e al Paese per illustrare le linee cui intende ispirare il suo settennato. Sarà l’unica volta, nelle poi frequenti occasioni della giornata, che Pertini «leggerà» un discorso. Non lo aveva fatto più di un paio di volte neppure negli otto anni in cui, prima di Ingrao, su quello stesso scranno aveva seduto da presidente della Camera. Gli altri discorsi di ieri verranno tutti «a braccio», contro ogni prassi e le rigide norme del cerimoniale. Ma anche leggendo (senza occhiali), spicca il contrasto tra l’esile, minuta figura del presidente, e la sua voce robusta, ferma, tagliente, con cui pronuncia un discorso tutt’altro che di rito. Parla per quattordici minuti, interrotto sei volte da applausi carichi di significato, che si ripeteranno una settima volta, ancor più calorosi e prolungati, alla fine del messaggio.
Il primo scatto dell’assemblea è quando Sandro Pettini. nel ricordo di sue brucianti esperienze di militante antifascista e socialista, esclama che «la libertà non può mai esser barattata»: tutti battono le mani — i grandi elettori, il pubblico, molti giornalisti — cogliendo tutto il senso di quest’affermazione. Che, peraltro, lo stesso presidente rende di lì a qualche istante ancora più esplicito (e qui nuovi, scroscianti applausi) quando dice, alzando la voce, che «nessun cedimento» può esservi al terrorismo, e che bisogna difendere la democrazia repubblicana «con fermezza, costi quel che costi alla nostra persona». E’ a questo punto del suo discorso che Pertini rivolge un omaggio commosso alla figura di Aldo Moro e a quel che il suo sacrificio ha rappresentato per l’Italia.
L’assemblea è in piedi, l’applauso coinvolge stavolta anche la presidenza del parlamento e l’intero governo. Qui accade un fatto inusuale, che merita di essere raccontato. Sviluppando l’attualissimo tema del-la criminalità politica, Pertini si chiede senz’ombra di retorica quale altro popolo ha saputo e saprebbe rispondere e resistere, come il popolo italiano, alla bufera di violenza scatenatasi sul Paese. L’ interrogativo è ancora a mezz’aria che dalla gremitissima tribuna del corpo diplomatico parte l’applauso che in un attimo si estende in tutta l’aula. Sono insomma proprio gli ospiti — ambasciatori di ogni Paese, l’intera diplomazia accreditata in Italia — che, anch’essi rompendo con le norme del cerimoniale, esprimono l’apprezzamento e la stima per la saldezza democratica del popolo italiano. C’è poi un passaggio delicato, nel discorso di Pertini.
Nel rendere il tradizionale omaggio ai suoi predecessori (degli ex presidenti era in aula solo Giuseppe Saragat), il capo dello Stato rivolge un saluto a Giovanni Leone «che oggi — dice — vive in amara solitudine». Non un commento, da parte dell’assemblea, e questo silenzio non passa inosservato. Siamo alle ultime battute del messaggio, e anche queste sono cariche di segnali politici: Pertini tiene fermo il richiamo alla sua esperienza nel movimento operaio (a quello della sua Savona in particolare), e insieme fa riferimento alla complessa, ricca matrice ideale della democrazia italiana citando Matteotti e Giovanni Amendola, Gobetti e Rosselli, don Milani e il compagno Antonio Gramsci, «mio indimenticabile compagno di carcere». Qui Pertini viene ancora una volta interrotto da un applauso, l’ultimo prima di quello che siglerà la conclusione del discorso. Al battimani finale si unisce anche lui, per salutare l’assemblea e quant’altri lo hanno ascoltato. Poi, in fretta, visibilmente commosso, scende dal banco della presidenza dal lato opposto a quello da cui era salito.
E allora il suo sguardo incrocia quello dei comunisti che gli si stringono attorno, affettuosi e commossi. Ma è lo stesso Pertini a spezzare la tensione emotiva con qualche battuta amichevole, persino fraterna. Come quando, il dito indice puntato scherzosamente su Giorgio Amendola, esclama: «Ti aspetto al Quirinale per continuare le nostre litigate!». Ora il presidente della Repubblica imbocca il transatlantico («Peccato, ci stavo così bene qui dentro…»), dovrebbe ricevere gli onori, ancora all’interno del palazzo, da un drappello di carabinieri in alta uniforme e dai corazzieri. Ma ha un momento di stanchezza. Si siede su un divano, in uno di quegli angoli dove solitamente i deputa leggono la posta e sbrigano le telefonate. Chiede un bicchier d’acqua, si asciuga la fronte con una salvietta di carta, e commenta: «Quanto sono complicate queste cerimonie per andare ai Quirinale. I fascisti, per spedirmi in galera fecero molto più in fretta».
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Questo è il testo integrale del discorso pronunciato ieri mattina a Montecitorio, dinanzi alle Camere riunite, dal Presidente della Repubblica, on. Sandro Pertini
Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali, nella mia tormentata vita mi sono trovalo più volte di fronte a situazioni difficili e le ho sempre affrontate con animo sereno, perché sapevo che sarei stato solo io a pagare, solo con la mia fede politica e con la mia coscienza. Adesso, invece, so che le conseguenze di ogni mio atto si rifletteranno sullo Stato, sulla nazione intera. Da qui il mio doveroso proposito di osservare lealmente e scrupolosamente il giuramento di fedeltà alla Costituzione, pronunciato a voi, rappresentanti del popolo sovrano. Dovrò essere il tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali dei cittadini. Dovrò difendere l’unità e la indipendenza della nazione nel rispetto degli impegni internazionali e delle sue alleanze, liberamente contratte. Dobbiamo prepararci ad inserire sempre più l’Italia nella comunità più vasta che è l’Europa avviata alla sua unificazione con il Parlamento europeo, che l’anno prossimo sarà eletto a suffragio diretto. L’Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro Popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della Terra. Questa la strada la strada della pace che noi dobbiamo seguire. Ma dobbiamo operare perché, pur nel necessario e civile raffronto fra tutte le ideologie politiche, espressione di una vera democrazia, la concordia si realizzi nel nostro Paese.
Farò quanto mi sarà passibile, senza tuttavia mai valicare i poteri tassativamente prescrittimi dalla Costituzione, perché l’unità nazionale, di cui la mia elezione è una espressione, si consolidi e si rafforzi. Questa unità è necessaria e se per disavventura si spezzasse, giorni tristi attenderebbero il nostro Paese. Non dimentichiamo, onorevoli deputati, onorevoli senatori, signori delegati regionali, che se il nostro Paese è riuscito a risalire dall’abisso in cui fu gettato dalla dittatura fascista e da una folle guerra, lo si deve anche e soprattutto all’unità nazionale realizzata allora da tutte le forze democratiche. E’ con questa unità nazionale che tutte le riforme, cui aspira da anni la classe lavoratrice, potranno essere attuate. Questo è compito del Parlamento.
Assicurare il lavoro
Bisogna sia assicurato il lavoro ad ogni cittadino. La disoccupazione è un male tremendo che porta anche alla disperazione. Questo, chi vi parla può dire per personale esperienza acquisita quando in esilio ha dovuto fare l’operaio per vivere onestamente. La disoccupazione giovanile deve soprattutto preoccuparci, se non vogliamo che migliaia di giovani, privi di lavoro, diventino degli emarginati nella società, vadano alla deriva e disperati si facciano strumenti dei violenti o diventino succubi di corruttori senza scrupoli.
Bisogna risolvere il problema della casa, perché ogni famiglia possa avere una dimora dignitosa, dote poter trovare un sereno riposo dopo una giornata di duro lavoro. Deve essere tutelata la salute di ogni cittadino, come prescrive la Costituzione. Anche la scuola conosce una crisi che deve essere superata. L’istruzione deve essere davvero universale, accessibile a tutti, ai ricchi di intelligenza e di volontà di studiare, ma poveri di mezzi. L’Italia ha bisogno di avanzare in tutti i campi del sapere, per reggere il confronto con le esigenze della nuova civiltà che si profila. Gli articoli della Carta costituzionale che si riferiscono all’insegnamento e alla promozione della cultura, della ricerca scientifica e tecnica, non possono essere disattesi. Il dettato costituzionale che valorizza le autonomie locali e introduce le Regioni, è stato attuato. Ne è derivata una vasta partecipazione popolare che deve essere incoraggiata. Questo diciamo, perché vogliamo che la libertà, riconquistata dopo lunga e dura lotta, si consolidi nel nostro Paese. E vada la nostra fraterna solidarietà a quanti in ogni parte del mondo sono iniquamente perseguitati per le loro idee.
La libertà inalienabile
Certo noi abbiamo sempre considerato la libertà un bene prezioso, inalienabile. Tutta la nostra giovinezza abbiamo gettato nella lotta, senza badare a rinunce per riconquistare la libertà perduta. Ma se a me, socialista da i sempre, offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata. Tuttavia essa diviene una fragile conquista e sarà pienamente goduta solo da una minoranza, se non riceverà il suo contenuto naturale che è la giustizia sociale. Ripeto quello già detto in altre sedi: libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro: non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale. Di qui le riforme cui ho accennato poc’anzi. Ed è solo in questo modo che ogni italiano sentirà sua la Repubblica, la sentirà madre e non matrigna. Bisogna cioè che la Repubblica sia giusta e incorrotta. forte e umana: forte con tutti i colpevoli, umana con i deboli e i diseredati. Così l’hanno voluta coloro che la conquistarono dopo venti anni di lotta contro il fascismo e due anni di guerra di Liberazione e se così sarà oggi, ogni cittadino sarà pronto a difenderla contro chiunque tentasse di minacciarla con la violenza.
Contro questa violenza nessun cedimento. Dobbiamo difendere la Repubblica con fermezza, costi quel che costi alla nostra persona. Siamo decisi avversari della violenza, perché siamo strenui difensori della democrazia e della vita di ogni cittadino. Basta con questa violenza che turba il vivere civile del nostro popolo, basta con questa violenza consumata quasi ogni giorno contro pacifici cittadini e forze dell’ordine, cui va la nostra solidarietà. Ed alla nostra mente si presenta la dolorosa immagine di un amico a noi tanto caro, di un uomo onesto, di un politico dal forte ingegno e dalla tasta cultura: Aldo Moro. Quale vuoto ha lasciato nel suo partito e in questa assemblea! Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui, non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi. Ci conforta la constatazione che il popolo italiano ha saputo prontamente reagire con compostezza democratica, ma anche con ferma decisione, a questi criminali atti di violenza. Ne prendano atto gli stranieri spesso non giusti nel giudicare il popolo italiano. Quale altro popolo saprebbe rispondere e resistere alla bufera di violenza scatenatasi sul nostro Paese come ha saputo e sa risponderei il popolo italiano!
Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali, invio alle Forze armate il mio saluto caloroso. Esse oggi. secondo il dettato della Costituzione, hanno il solo nobilissimo compito: quello di difendere i confini della patria se si tentasse di violarli. Noi siamo certi che i nostri soldati e i nostri ufficiali saprebbero con valore compiete questo alto dovere.
Il mio saluto deferente alla magistratura: dalla Corte costituzionale a tutti i magistrati ordinari amministrativi cui incombe il peso prezioso e gravoso di difendere ed applicare le leggi dello Stato. Alle forze dell’ordine il mio saluto. Esse ogni giorno rischiano la propria vita per difendere la vita altrui. Ma devono essere meglio attrezzate ed avere condizioni economiche più dignitose. Vada il nostro riconoscente pensiero a tutti i connazionali che fuori delle nostre frontiere onorano l’Italia con il loro lavoro. Rendo omaggio a tutti i miei predecessori per l’opera da essi svolta nel supremo interesse del Paese. Il mio saluto al senatore Giocatimi Leone, che oggi vive in amara solitudine. Non posso, in ultimo, non ricordare i patrioti coi quali ho condiviso le galere del tribunale speciale, i rischi della lotta antifascista e della Resistenza.
Non posso non ricordar che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di Don Minzoni e di Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, né in politica. Ma da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia.
Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali, viva la Repubblica. viva l’Italia.
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Nel segno dell’esigenza dell’unità nazionale
Consensi molto larghi al messaggio di Pertini alle Camere
Napolitano: «Un Presidente fuori dai particolarismi di partito »
La Malta: non vi sono problemi per l’attuale maggioranza
Galloni sui rischi di spaccatura durante la campagna presidenziale
ROMA — II messaggio di Sandro Pertini ha raccolto commenti unanimemente positivi. Si è trattato di un messaggio, come ha sottolineato il compagno Giorgio Napolitano, che «conferma la giustezza della scelta compiuta dal Parlamento: avremo un presidente al di sopra di ogni particolarismo di partito, un autentico garante della unità nazionale».
Anche Zaccagnini ha ricordato positivamente i principali passaggi del messaggio del nuovo capo dello Stato, dicendo che egli ha saputo «dare voce a quanti ancora sperano e operano per un’Italia più avanzata e civile ».
La Malta ha fatto un riferimento più diretto alla vicenda dell’elezione presidenziale, ai rischi di spaccatura che si erano profilati all’orizzonte nel momento della contrapposizione della candidatura socialista e di quella repubblicana (Giolitti e lo stesso La Malta). Alla domanda se questa vicenda avrà conseguenze sul quadro politico, il leader dei PRI ha detto: «Noi repubblicani abbiamo considerato questa soltanto come una battaglia di carattere istituzionale, e tale per noi è rimasta: quindi la maggioranza si potrà mettere tranquillamente all’opera». (Le dimissioni presentate dal governo, come vuole la prassi in seguito all’investitura di un nuovo presidente — osserva in sostanza La Malia — questa volta più di altre volte possono essere considerate puramente formali). Del di-scorso di Pertini, l’on. La Malta sottolinea in primo luogo l’affermazione secondo cui «lo Stato non cederà di un’unghia rispetto alle violenze terroristiche e ai tentativi di ricattarlo»; del resto, ha ricordato, Pertini aveva affermato questo concetto già durante la tragica vicenda Moro.
I rischi di una rottura dell’attuale maggioranza, che avrebbe potuto dividersi sugli scogli della campagna presidenziale, sono stati ricordati da un’intervista di Giovanni Galloni, vice segretario della Democrazia cristiana. Egli ha confermato che nella mattinata di venerdì scorso, dopo il ritiro della candidatura Vassalli e la riduzione di quella fase della battaglia all’alternativa tra La Malta e Giolitti, i «veti» contrapposti dei socialisti e dei repubblicani avevano posto alla DC un problema di difficile soluzione. «Qualunque scelta avessimo fatto (tra La Malta e Giolitti, n.d.r.) — afferma Galloni — si sarebbe determinata la rottura dell’equilibrio tra le forze politiche, perché il partito escluso minacciava questa possibilità: ciò, del resto, risulta dalle dichiarazioni del PSI e dalla lettera dell’on. La Malfa ai grandi elettori repubblicani». La proposta della candidatura Pertini venne quindi fatta da Zaccagnini, prima alla direzione del suo partito, poi dinanzi ai grandi elettori dc, come unica candidatura in grado di sbloccare l’impasse. Pertini aveva già ottenuto l’appoggio dei comunisti e dei socialdemocratici, ed era l’unico candidato socialista accettato dal PRI. Era stata la DC a bloccarne la candidatura in un primo momento, per il modo — così aveva sostenuto — con il quale il PSI l’aveva presentata.