L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1978 – SANDRO PERTINI

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L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1978 – SANDRO PERTINI

La elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana

L’UNITÀ

ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 200                         * * Anno LV / N. 156 / domenica 2 luglio 1978

ALFREDO REICHLIN Direttore
CLAUDIO PETRUCCIOLI Condirettore
ANTONIO ZOLLO Direttore responsabile

 

 


pag. 1 e 2

Mentre il PCI ripropone l’esigenza di un candidato unitario scelto senza preclusioni

Veti dc e altre manovre bloccano l’elezione
Umiliante sfilata di astenuti a Montecitorio

Un prolungato il caloroso applauso ha salutato il termine del quarto scrutinio i 355 voti per il compagno Amendola, che ha raccolto anche i suffragi degli indipendenti di sinistra
Astenuti democristiani e socialisti, scheda bianca per repubblicani, socialdemocratici, liberali, demonazionali e missini

ROMA — Appena ieri pomeriggio Pietro Ingrao ha cominciato a leggere i risultati del quarto scrutinio per l’elezione del settimo presidente della Repubblica annunciando i 355 voti raggiunti dal compagno Giorgio Amandola, dai bandii di sinistra dove si assiepavano attentissimi i grandi elettori comunisti e indipendenti di sinistra, si è levato un caloroso e lunghissimo applauso. Questa vera e propria ovazione aveva due precisi significati. C’erano tutto l’orgoglio e la stima per il dirigente comunista, uno dei maggiori esponenti della democrazia italiana. Ma c’erano anche la polemica franca e una carica di protesta per il comportamento degli altri partiti, per la linea elettorale adottata appunto ieri — in coincidenza con l’abbassamento da 674 a 506 voti del quorum necessario per l’elezione del capo dello Stato. La Dc e il PSI si sono infatti astenuti. Non si è trattato nemmeno di votare scheda bianca, ma di imporre ai propri parlamentari la vera e propria umiliazione di passare a mani vuote davanti all’urna dichiarando la stensione. E ciò, evidentemente, perché i dirigenti di questi partiti non si fidavano della disciplina dei loro, nel caso avessero avuto in mano la scheda. Una umiliazione per dc e socialisti ma anche per il Parlamento, che infatti ha reagito rumoreggiando e protestando. Tutto ciò per i democristiani è stato l’improvviso ritorno ad una pratica che si riteneva superata dai mutamenti che in questi ultimi anni sono intervenuti all’interno del partito scudo crociato. Per i socialisti era la prima volta che questo accadeva nella storia delle elezioni presidenziali: e l’imbarazzo che ne è derivato tra le file del PSI si è bene avvertito nell’aula. persino nei comportamenti dei suoi 95 elettori.

Né la gravità dell’accaduto si ferma a queste astensioni. Nel conto c’è da mettere anche la decisione di PRI, PSDI, PLI, DN, SVP e inoltre dei neo fascisti di tornare a insistere sull’indicazione della scheda bianca. Non tutti gli elettori di questi gruppi hanno comunque rispettato la scelta di cartello. lo testimoniano gli 11 voti raccolti dal social democratico Paolo Rossi (uno in più di venerdì sera), i 9 voti con cui è stata per la prima volta formalmente abbozzata – difficile tutte via dire da chi – la candidatura del prof. Norberto Bobbio, il cui nome come si sa fa parte della « rosa» formulata dai socialisti la settimana scorsa, e inoltre le schede disperse sui nomi più disparati. completano il quadro dello scrutinio di ieri i quattro voti confermati dai radicali alla Camilla Cederna, gli altrettanti suffragi che per la seconda volta il PDUP ha indirizzato a Sandro Pertini e infine i soliti tre voti, di DP, per il compagno Umberto Terracini.

Ma, ovviamente, non son questi i dati politici che spiccano dall’esito del quarto scrutinio. Sono ben altri. Intanto il dato dell’amplissimo consenso realizzato intorno al candidato dell’unico partito che ha mostrato di porsi di fronte ad un evento così impegnativo con una condotta coerente, rigorosa e insieme aperta ad ogni soluzione unitaria fuori di qualsiasi manovra.
Come detto, per il compagno Amendola hanno votato stavolta anche senatori e deputati della Sinistra indipendente. Motivando questa scelta il sen. Anderlini ha detto che il voto per Giorgio Amendola è stato deciso «sia per la sua statura morale, culturale e politica, sia perché il PCI, che l’ha proposto, è portatore di una politica largamente unitaria capace di contribuire alla soluzione in tempi brevi della questione dell’ elezione del presidente della Repubblica. Ci auguriamo – ha aggiunto Anderlini – che in questo spirito intorno al nome di Giorgio Amendola possano unirsi anche altre forze della  sinistra italiana».
Il compagno Amendola infatti ha ieri sera ottenuto il più alto numero di voti rispetto ai precedenti scrutini. Non solo, ma ha superato — malgrado cinque assenze giustificate tra i comunisti e gli indipendenti di sinistra — i suffragi raccolti l’altro ieri, al terzo scrutinio, dal candidato di bandiera della DC Guido Gonella.

Tra i fattori che hanno suggerito alla DC di non riproporre ieri il nome di Gonella c’era appunto, più che il timore, la certezza di vederlo scavalcato dal candidato dei comunisti, anche per l’ormai evidente incapacità dc di controllare il dilagante e composito fenomeno dei franchi tiratori. L’altro elemento da cui non si può prescindere è purtroppo lo spettacolo deprimente cui si è assistito con la silenziosa e a tratti imbarazzata sfilata di quanti, tenuti dal regolamento a percorrere isolati lo stretto corridoio davanti al banco della presidenza, dovevano testimoniare di essere presenti al voto ma di non poter utilizzare la scheda. Si è visto di tutto, in quei momenti. Si è visto un Bettino Craxi con fare distratto che, riempita frettolosamente la scheda al momento in cui è stato chiamato a votare, solo in extremis si è ricordato dell’indicazione negativa da lui stesso impartita ed ha evitato per un pelo un’incredibile gaffe. Si è visto un ex ministro, Vito Lattanzio, che allargava le braccia guardando smarrito la presidenza, quasi a giustificarsi del non-voto. (Ma poco prima, alla «chiama» dei senatori, il suo collega di partito ed anche lui ex ministro Giulio Orlando aveva messo la scheda nell’urna, unico tra i dc a contravvenire alla disposizione astensionista). E si è notata l’assenza, per la prima volta da quando si è cominciato a votare, del segretario democristiano Benigno Zaccagnini: forse Zac ha voluto evitare di mostrare quell’imbarazzo che tanti altri — suoi colleghi, ma soprattutto «grandi elettori» socialisti — cercavano disperatamente di nascondere ieri pomeriggio scambiando improbabili battute scherzose con i commessi di servizio all’ urna.

Visto l’esito negativo anche della quarta votazione, Ingrao ne ha indetta un’altra per questa mattina alle10. Forse, questo pomeriggio si avrà anche un sesto scrutinio. Come si è detto, mentre nel caso socialista l’astensione dal voto non ha alcun precedente nella storia ormai più che trentennale delle elezioni dei presidenti delta Repubblica, per la DC questa scelta, rivelatrice di incertezze e ambiguità, non è una novità. Il precedente più clamoroso, anche per la sua spropositata lunghezza, è di sei anni e mezzo fa, e caratterizzò tutta la parte centrale della lunga maratona elettorale per la successione alla presidenza Saragat. Quando si cominciò a votare, il 9 dicembre del ‘71, candidato ufficiale della DC era Amintore Fanfani. Il suo nome fu votato da un numero sempre minore di democristiani. Né Fanfani, né l’allora segretario della DC Forlani riuscirono a riassorbire la dissidenza, nonostante episodi di pressione sugli elettori scudo crociati e di controllo delle loro schede.

Di fronte alla progressiva perdita di terreno della candidatura Fanfani, la DC decise – mentre si scatenava il gioco delle correnti, e proprio per tamponare gli effetti più appariscenti e imbarazzanti – di imporre ai propri «grandi elettori» il voto di astensione. La prima mortificante litania di «mi astengo» si ebbe la mattina del 13 dicembre, al settimo scrutinio, mentre le sinistre unite continuavano a votare compatte per Francesco De Martino. Il poco edificante spettacolo dell’astensione DC (oggetto in quelle nervose giornate di polemiche anche aspre in piena aula) si protrasse quasi ininterrottamente per quindici votazioni (con l’eccezione della undicesima) sino alla ventiduesima compresa, la sera del 22 dicembre. Poi il colpo di scena. Lo scontro in casa dc che aveva sancito la definitiva sconfitta di Fanfani, brucio anche la candidatura di Aldo Moro cui fu contrapposta quella di Giovanni Leone in grado di rastrellare i voti della destra. Ma all’indomani, il 23 dicembre, malgrado l’apporto dei voti neofascisti, Leone per una scheda mancò l’elezione. Ci volle ancora uno scrutinio la vigilia di Natale.

Ieri la decisione dell’astensione dei grandi elettori della DC e del PSI, resa nota poco prima dell’inizio della seduta, ha avuto una breve ma movimentata eco in aula. I radicali hanno preso a pretesto questa decisione per avanzare – prima che Ingrao desse il via all’appello degli elettori – l’assurda richiesta di pronunciare una dichiarazione di voto: «Le astensioni sono l’espressione palese di un voto – ha detto Pannella – quindi io voglio spiegare in aula perché non mi astengo». Il presidente del Parlamento gli ha tolto la parola definendo inammissibile anche la semplice proposizione di tale richiesta. mentre Pannella, con usuale melodrammaticità, abbandonava l’aula, c’è stato ancora qualche scambio di battute tra Ingrao e i deputati del PDUP. i radicali anno più tardi scritto ad Ingrao chiedendo addirittura l’annullamento della votazione di ieri pomeriggio. Il p di UP ha protestato sollecitando chiarimenti regolamentari.


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Se fosse dipeso da noi

 

A questo punto, la sola posizione chiara, unitaria, preoccupata degli interessi generali del paese, la sola che non ha preteso mai di imporre un presidente, risulta essere la nostra. Perché non dirlo? Abbiamo dimostrato la necessaria pazienza di fronte ai travagli altrui, abbiamo discusso senza imporre davvero preclusioni, e respingendo, anzi, o criticando quelle di altri. Abbiamo detto senza preclusioni: e infatti siamo forse i soli che non ne abbiano avanzata alcuna.

Abbiamo espresso una propensione per un candidato non democristiano e abbiamo salutato come positiva la decisione dei gruppi democristiani (che fino a ieri abbiamo ritenuto leale) di ricercare, insieme agli altri partiti democratici, un candidato non democristiano. Con i compagni socialisti abbiamo avuto un incontro positivo, con gli altri partiti democratici abbiamo avuto contatti amichevoli e non inutili. Insomma, se fosse dipeso dalla politica, dalla disponibilità, dall’azione dei comunisti (o, più modestamente, diciamo che se tutti avessero lavorato allo stesso modo e con uguale franchezza) il giornale di oggi porterebbe nel suo titolo il nome del nuovo presidente della Repubblica, e costui sarebbe l’eletto di tutti i democratici e gli antifascisti, scelto attraverso la legittima dialettica di una ricerca comune, di un dibattito impegnato.

Non abbiamo, invece, l’impressione che tutte le forze politiche abbiano inteso appieno quello che si attende il paese: il fatto che esso chiede un clima politico nuovo, che tale deve apparire non a parole, ma per un diverso atteggiamento di tutti, per il superamento effettivo di vecchi steccati e per la capacità di affrontare l’urgenza di problemi gravi che non sono più prorogabili. La Repubblica ha subito un trauma — che tuttavia non va drammatizzato —per le dimissiona di Giovanni Leone e per le vicende che le hanno precedute e provocate. Ma la Repubblica ha dimostrato la sua vitalità anche per il fatto che quelle dimissioni ci sono state e il Paese e i partiti te hanno ritenute giuste. Ma guai se ciò non si riflettesse adesso nella scelta importante dell’ora, e guai se questa scelta non fosse tale da precedere e in qualche modo, emblematicamente, preparare altre scelte da profondo rinnovamento. La Democrazia Cristiana ha dimostrato di essere contraddittoria, esitante (scegliamo, a differenza di altri, gli aggettivi, anche a costo di passare per amici degli eufemismi).

Dopo un primo incontro con le delegazioni degli altri partiti, il suo atteggiamento è apparso quello di chi sfugge al confronto aperto e chiaro, di chi teme di trovarsi nelle condizioni in cui un sì significa davvero un sì e un no un no. Una riunione in comune dei partiti è stata, è vero, proposta dal Ministro degli Esteri democristiano, ma non pare che abbia avuto molta fortuna presso coloro che avrebbero dovuto o potuto promuoverla ed organizzarla. E’ questo il nuovo modo di governare e di fare politica? La nostra critica, anche severa, vuol essere un monito che vale per tutti i partiti. Per quanto riguarda noi viene da essa il consiglio a non limitare l’opera nostra ai vertici, al corridoio  dei passi perduti, alle dichiarazioni. Di fronte a manifestazioni di demoralizzazione e di qualunquismo i nostri compagni devono rispondere con il dibattito, con la vita democratica di un partito vivo che dimostri di essere tale  non solo nel Palazzo di Montecitorio. Gli elettori dei «grandi elettori», devono sentire nelle fabbriche, negli uffici, nel dialogo quotidiano la loro parte di responsabilità. Siamo tornati ieri a votare il compagno Giorgio Amendola e abbiamo incalzato con la nostra proposta unitaria. Ma abbiamo anche dovuto assistere all’umiliante spettacolo dato dai «grandi elettori» dc, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, demonazionali e missini che sfilavano davanti all’urna per astenersi o votare scheda bianca. Perciò non chiediamo agli italiani di trasformarsi in un popolo di telespettatori, con il video ieri puntato su uno stadio e oggi su Montecitorio. Chiediamo a tutti di pronunciarsi contro manovre vecchie che non producono nulla. Ricordiamoci di quelle che hanno portato all’elezione di Giovanni Leone. Possibile che la DC non abbia inteso la lezione? Si ricordi che il patto di una nuova maggioranza doveva e deve significare anche la rinuncia ai tabù ideologici, quando al pericolo di scegliere e di votare con i comunisti si sacrificava ogni cosa, anche l’interesse del Paese.

Adesso qualcosa di nuovo deve esserci e non vedo a chi e a che cosa serva rinviare ancora. Salvare la democrazia vuol dire dimostrare che essa può essere efficiente, giusta, garante di una linea di sviluppo e di progresso. Bisogna capire che per uscire dalla crisi occorre rinunciare, ma sul serio, a vecchi giochi, manovre, intrighi che possono sembrare accordi, ma che in realtà sono cose che poi gli italiani pagano a caro prezzo. La nostra serietà e la nostra disponibilità unitaria sono quelle del primo giorno. Che nessuno creda che i problemi si risolvono con qualche trovata, più o meno brillante. Bisogna eleggere – e presto – un presidente degno della Repubblica nata dalla Resistenza, un uomo stimato dagli italiani, capace di rappresentare non questa o quella parte, ma le speranza le volontà, le aspirazioni di tutti a una vita migliore. Capace quindi non di dividere ma di unire.

Gian Carlo Pajetta