La elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana
L’UNITÀ
ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 600 * *Anno 62° n. 136 / DOMENICA 23 GIUGNO 1985
EMANUELE MACALUSO Direttore
ROMANO LEDDA Condirettore
GIUSEPPE F. MENNELLA Direttore responsabile
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Per il Quirinale domani primo scrutinio
Oggi voto in casa dc: si decide su Cossiga
Sorprese dai grandi elettori?
Le resistenze al metodo del consenso più largo tra le forze costituzionali
Il confronto sulle diverse ipotesi – Ieri la Direzione comunista, domani i gruppi
ROMA — Il passaggio-chiave per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è previsto per questo pomeriggio: all’assemblea dei «grandi elettori» democristiani Ciriaco De Mita proporrà, perché sia votato e designato ufficialmente, il nome del candidato su cui le consultazioni di questi giorni indicano la possibilità di realizzare il più vasto consenso tra le forze costituzionali. È un nome che non è più un mistero per nessuno: Francesco Cossiga, attuale presidente del Senato. Le incognite si appuntano ora sull’accoglienza che questa candidatura riceverà nei gruppi democristiani e sulle eventuali resistenze che potrebbe incontrare da parte dei sostenitori di candidati concorrenti ma alla fine esclusi. Tutti i grandi capi, alcuni dei quali si identificano con i petali caduti della iniziale «rosa» democristiana, assicurano lealtà e compattezza dietro il prescelto.
E la quiete della vigilia sembra accreditare le previsioni ottimistiche. Tuttavia, l’esperienza delle precedenti elezioni presidenziali consiglia di non dare nulla per sconta-to. Tanto più che il percorso che ha condotto a Cossiga solo negli ultimissimi giorni è diventato più pianeggiante. Le resistenze a un’impostazione fondata sulla ricerca del più largo consenso tra le forze costituzionali sono state forti nel pentapartito, e del resto continuano a echeggiare ancora in queste ore nelle dure critiche di Donat Cattin, interprete dei settori oltranzisti della Dc. Vedremo oggi se affioreranno anche nei gruppi. Il problema, del resto, è stato sin dall’inizio della competizione quello del segno che qualcuno avrebbe voluto dare all’eventuale elezione di un democristiano al Quirinale: la tentazione di farne merce di scambio per equilibri politici interni alla maggioranza era infatti molto forte, e da parte di taluno rappresentava una propensione dichiarata. De Mita ne prese le distanze quando rilevò — già nell’autunno scorso — che il Capo dello Stato non è il capo di una maggioranza politica contingente ma il rappresentante dell’unità della nazione: dunque la sua elezione, e prima ancora l’individuazione della candidatura più adatta, avrebbero dovuto ispirarsi al massimo a questa esigenza. La questione è stata posta concretamente dieci giorni fa, appena superate le prove elettorali di una primavera politicamente assai calda.
Nel pentapartito settori socialdemocratici, qualche liberale, qualche socialista (per non parlare della ruota di scorta radicale) uscirono allora allo scoperto rivendicando un presidente della Repubblica che fosse espressione della maggioranza e, ancora più, «garante del suo consolidamento». Insomma una scelta di rottura (e oltretutto dagli esiti assai incerti anche per i suoi sostenitori). L’opzione di De Mita è stata diversa: mercoledì 12 giugno egli si è presentato al direttivi del gruppi parlamentari democristiani anzitutto per esprimere la richiesta ufficiale dell’elezione di un democristiano al Quirinale, ma sottolineando al contempo che il nome avrebbe dovuto «essere concordato tra tutte le forze che hanno dato vita alla Costituzione». Ciò voleva dire che il segretario dc escludeva un’operazione diretta a imprimere il marchio del pentapartito sulla più alta magistratura, morale e istituzionale, dello Stato. Dopo qualche resistenza, la Direzione dc ha approvato all’unanimità questa linea. Le risposte del Pci e del Pri sono state dall’inizio favorevoli al metodo di un confronto senza alcuna pregiudiziale. Naturalmente, hanno sottolineato i comunisti, in tutte le direzioni. Così, dell’impostazione di De Mita — come ha sottolineato Alessandro Natta — non si poteva certo accogliere la pretesa di fondare la rivendicazione democristiana su «regole» inesistenti come quella dell’alternanza tra «laici» e «cattolici» al Quirinale: o su prassi presunte che vieterebbero la rielezione del Capo dello Stato. Altra cosa è naturalmente la legittimità dell’aspirazione democristiana a poter esprimere, come partito di maggioranza relativa, un candidato alla Presidenza della Repubblica. In tal caso, si trattava — come poi di fatto è avvenuto nell’incontro tra le delegazioni dl Pci e Dc — di confrontare ipotesi dc (De Mita ha presentato i nomi di Andreotti, Colombo, Cossiga, Elia, Fanfani, Forlani, Scalfaro, Zaccagnini), con ipotesi diverse, in testa alle quali i comunisti hanno posto la rielezione dell’uomo che in sette anni ha stabilito un legame profondo, e di straordinario valore. tra Istituzione presidenziale e popolo: Sandro Pertini.
Tra socialisti, socialdemocratici e, in qualche misura, liberali il metodo della designazione concordato tra tutte le forze costituzionali non ha avuto invece, inizialmente, accoglienza chiaramente positiva. Per esser precisi, il Psdi ha manifestato aperta ostilità e il Psi si è trincerato dietro un silenzio piuttosto reticente. Ma i dubbi maggiori sulle reali intenzioni socialiste sono venuti soprattutto dopo alcune dichiarazioni di Craxi, che sembravano voler stabilire una connessione tra l’elezione del nuovo Presidente e la durata dell’attuale governo; e dopo un «saggio» pubblicato sull’«Avanti!» da un craxiano fedelissimo come Salvo Andò, che invocava la nomina di un Capo dello Stato espresso dalla maggioranza e «garante della continuità della formula». Una tesi insostenibile, sotto il profilo costituzionale, ma che sembrava in realtà preparare il terreno per il lancio della candidatura pentapartitica per eccellenza, quella di Arnaldo Forlani. Dubbi e sospetti sono stati poi accresciuti dall’incontro a sorpresa, pochi giorni fa, tra Craxi e Almirante proprio mentre erano in corso le consultazioni sollecitate dalla De (e De Mita aveva dovuto imporre a una parte dei suoi l’esclusione del Msi dagli incontri). Tuttavia, quando le acque cominciavano a intorbidarsi, i socialisti hanno chiarito la loro posizione: alla delegazione dc Martelli ha dichiarato ufficialmente la disponibilità a votare un candidato come Cossiga, esigendo però prima una prova di compattezza dello scudo crociato attorno al candidato. Una richiesta che è parsa ad alcuni contenere una riserva mentale, fino a quando lo stesso Martelli non ha annunciato un mutamento di rotta e la disponibilità a votare Cossiga dal primo scrutinio.
Sulla stessa linea, esplicitamente, anche il Psdi, e presumibilmente il Pri. È questa la situazione che fa da sfondo all’assemblea democristiana di oggi pomeriggio. De Mita ha ammonito eventuali congiurati: se non passa Cossiga è difficile che passi un altro candidato democristiano. Forlani risponde assicurando che tutti collaboreranno alla «buona riuscita dell’operazione», Andreotti dice che nel partito non c’è mai stata tanta unità interna. Ma a questo puntosi è ormai alla prova del numeri. E da questa naturalmente dipenderanno gli altri passaggi decisivi delle prossime ore. Ieri sera, intanto, si è riunita la direzione del Pci che ha esaminato gli ultimi sviluppi della situazione in rapporto alla elezione del presidente della Repubblica. «Alla riunione — come informa un comunicato — hanno partecipato i vice-presidenti dei gruppi parlamentari e li compagno Gianfranco Bartolini in rappresentanza del comunisti delegati dai consigli regionali. Gli orientamenti del Pci — si legge ancora nel comunicato — verranno valutati dal comitati direttivi del gruppi parlamentari che si riuniscono domenica (oggi ndr) e dall’assemblea del parlamentari e dei delegati regionali comunisti convocata per lunedì mattina». Nel pomeriggio di domani inoltre si terrà la riunione degli elettori socialisti. Alle 16 di lunedì, nell’aula di Montecitorio, si comincia a votare: per eleggere subito il Presidente ci vorranno ben 672 voti, e cosi fino al terzo scrutinio (poi scenderanno a 506). Un presidente al primo colpo? E accaduto una volta sola, con Enrico De Nicola.
Antonio Caprarica
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No, chi voleva ridimensionare il Pci ha fallito
di MASSIMO D’ALEMA
NON NEGHIAMO che, nei commenti e nelle riflessioni che da più parti vengono sul nostro partito dopo le elezioni e il referendum, vi sia, oltre a punte di faziosità e di rozzezza, anche il segno della preoccupazione sincera di uomini democratici e di sinistra circa il ruolo e le prospettive della forza comunista nel nostro paese. Non ci può essere — diciamolo con franchezza — da parte nostra né fastidio né pretesa di autosufficienza, ma capacità di dare risposte a critiche e sollecitazioni e più ancora a grandi problemi e difficoltà oggettive che stanno sul nostro cammino.
Quello che è certo, vorrei dire ai nostri critici, è che il partito comunista intende portare a fondo la discussione e la ricerca che abbiamo avviato con il Comitato centrale dopo il voto del 12 maggio e che nessuno fra di noi intende «appiattirsi sulle ragioni della pura sopravvivenza». Non sfugge ai comunisti, infatti, che è in gioco la possibilità stessa dell’avvento delle classi lavoratrici alla direzione del paese e quindi le prospettive della democrazia italiana. Ha ragione Asor Rosa quando pone in questi termini il problema e quando ricorda che il referendum ha confermato che i lavoratori dipendenti sono rappresentati, nella grande maggioranza in Italia, dal partito comunista.. Come pure occorre dare atto ad Alberto Jacoviello della constatazione che la battaglia che i comunisti hanno sostenuto in questi anni è condivisa da una grossa fetta degli italiani; altrimenti, come egli scrive, «non si spiegherebbe perché, nonostante tutti gli errori che vengono loro addebitati e tutti i de profundis che vengono puntualmente intonati i comunisti italiani non solo non sono morti, ma neppure sono entrati in agonia, come è toccato ad altri partiti comunisti».
Non è inutile ricordare questo e non perché si voglia da parte nostra negare il colpo subito nelle elezioni o la sconfitta del «si» nel referendum. Ma perché né la tenuta di una solidarietà sociale tra i lavoratori e fra questi masse emarginate del Mezzogiorno né la tenuta del consenso comunista erano e sono elementi scontati e di poco conto. Dovrebbero riconoscerlo anzitutto quei commentatori che mettono l’accento sulle profonde trasformazioni e sugli sconvolgimenti sociali di questi anni, sul mutamento della composi-zione della qualità del lavoro, sulla riduzione del peso della classe operaia tradizionale, sul diffondersi di nuove figure e ceti professionali: senza un rapporto con almeno una parte di queste forze nuove il Pci non avrebbe mantenuto la sua forza e il consenso di quasi un terzo del popolo italiano. Ma c’è una seconda ragione che porta a non sottovalutare il peso dei risultati nostri, nostri, pur insufficienti, del 12 maggio e del 9 giugno ed è la portata dell’attacco politico, culturale e sociale che si e sviluppato contro il Pci a partire ormai dalla crisi della politica di solidarietà nazionale e prima ancora dal 77. Intendiamoci, se insistiamo nel sollevare questa questione non è — lo ripetiamo — per esimerci dalla necessità di una riflessione autocritica, ma per vedere la natura effettiva degli errori e dei limiti nostri. La vicenda italiana di questi anni infatti non ha avuto (come sembra da certi articoli) come unico protagonista il Pci e il suo gruppo dirigente.
E una grande forza come la nostra non può riflettere su se stessa se non nel vivo di una analisi delle forze in campo e del loro condizionamento reciproco. Ora non mi sembra dubbio che si è sviluppato in questi anni un disegno ambizioso non solo di congelamento della forza comunista, ma di vera e propria liquidazione della questione comunista. Che, a partire dall’idea secondo cui l’esaurirsi della solidarietà nazionale segnasse la crisi storica del Pci e l’avvio di un suo declino, si sia tentato di ridisegnare i rapporti di forza fondamentali nella società italiana tra un polo socialista e laico-riformista e uno democristiano moderato.
Puntando non solo ad isolare il Pci, ma a ridimensionarne drasticamente il peso e la rappresentanza sociale. Presentando anzi questo ridimensionamento come condizione di una democrazia più avanzata e capace di alternative nel governo del paese. Malgrado la forza dei mezzi messi in campo (fino, per esempio, a far sorgere ormai «una questione democratica dell’informazione»), la determinazione e la spregiudicatezza con cui si e operato, i prezzi alti pagati in termini di divisione sindacale, logoramento del potere locale della sinistra, ecc., questa operazione ha mancato i suoi obiettivi già ambiziosi. E ciò non a caso, ma per il fatto che il Pci non ha subito in modo subalterno, come gli veniva intimato da più parti, magari accodandosi ad altre forze nella rincorsa moderata al centro, ma si è battuto con fermezza e, pure nelle condizioni di difficoltà e di isolamento in cui si è venuto a trovare si è sforzato di condurre questa battaglia nel segno di una prospettiva unitaria e riformatrice. Siamo riusciti pienamente in questo sforzo? Siamo stati capaci di combinare la battaglia necessaria con il respiro di una impostazione che è e resta unitaria? Sono interrogativi legittimi, e motivo di una riflessione autocritica.
Ma c’è un problema più di fondo rispetto agli scarti e agli errori nella nostra condotta politica. Sta nel fatto che le trasformazioni nella nostra epoca e gli stessi sviluppi della lotta politica ci mettono di fronte ad una sfida che non può essere vinta senza un rinnovamento profondo delle nostre forze e della nostra cultura. E non solo nel senso — come si sostiene in modo abbastanza riduttivo — di una più aperta e trasparente dialettica nel partito, pur necessaria, per confrontarci e decidere nella chiarezza. Ma insieme a ciò attraverso uno scambio più ricco tra partito e società, tra direzione politica, partecipazione democratica e competenze. Insomma, una grande operazione di modernizzazione del partito e di rinnovamento programmatico. Ma non c’è solo il partito: il tema del sindacato, del suo ruolo e del suo rapporto con i lavoratori e con le grandi trasformazioni del lavoro è persino più acuto ed urgente. E con il sindacato si pone il problema del rilancio, della funzione di grande organizzazione di massa democratica e del mondo del lavoro e del ceto medio, del rapporto con nuovi movimenti e culture che si fanno strada nell’opinione pubblica e nel mondo giovanile. A questa sfida non intende sottrarsi il nostro partito.
Ci è chiaro che dipende in buona parte da noi, dal nostro qualificarci sempre più come una grande forza riformatrice moderna ed europea, la possibilità di un dialogo con forze sindacali e politiche di progresso. Le quali sono oggi imprigionate nella gabbia del pentapartito e debbono, anche loro, rinnovarsi nel senso detto. Un dialogo che si estende anche alle forze sociali, compresi i gruppi più avanzati del capitalismo italiano, interessate a un processo effettivo e non asfittico e lacerante di sviluppo e di ammodernamento del paese. Sarebbe ingiusto non riconoscere che non da oggi lavoriamo in questa direzione. Oggi tuttavia si impongono scelte più nette, chiare e coraggiose. Per questo stiamo discutendo: per compierle.
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Quattro passaggi nelle prossime 48 ore
Siamo ormai alle ultime battute che precedono la seduta comune al Parlamento per l’elezione del Capo dello Stato. Vediamo quali sono i passaggi più rilevanti.
Un primo appuntamento importante sarà l’odierna assemblea dei gruppi parlamentari della Dc. In questa sede infatti la Dc deciderà se proporre o no un suo candidato a tutte le forze che si richiamano alla Costituzione. La proposta della segreteria dc di fare votare il nome di Cossiga ha questo senso. Infatti il presidente del Senato ha più volte dichiarato di condizionare la sua designazione al sostegno dei partiti dell’intero arco costituzionale. In altri termini se uno di questi partiti non dovesse convergere su questa indicazione evidentemente Cossiga non sarebbe più il candidato dc.
I pronunciamenti definitivi degli altri gruppi assumono quindi un particolare rilievo. Un secondo passaggio è quello dell’assemblea dei parlamentari socialisti. È dall’interno del Psi che sono venute le più forti sollecitazioni — sostenute da una parte della Dc —per un candidato che si identificasse con la maggioranza di governo, divenendone una sorte di mallevadore e di garante. Successivamente vi sono state altre oscillazioni, e infine il Psi ha espresso Il suo favore per la candidatura di Cossiga, coi tratti prima delineati. Gli umori dei gruppi parlamentari potranno perciò essere di qualche significato per la tenuta degli orientamenti assunti nell’ultimissima fase delle consultazioni. Un terzo passaggio è costituito dall’assemblea dei «grandi elettori» comunisti, poiché i loro voti sono determinanti ai fini dell’elezione di un candidato che non sia la proiezione degli attuali equilibri governativi, ma l’espressione concreta dell’eguaglianza e della parità tra tutte le forze costituzionali.
Come abbiamo riferito ieri, il Pci si è riservato ogni decisione sulla candidatura del presidente del Senato. Un quarto ed ultimo passaggio si avrà infine con le prime votazioni. Sarà lì nell’aula di Montecitorio affollata di 1.011 grandi elettori che si verificherà nei fatti la conferma o meno di una linea e di una volontà politica di sottrarre l’elezione del Capo dello Stato agli interessi contingenti di questo o quel partito, di questa o quella coalizione di governo, e ancor più al giochi, ai complotti, agli intrighi. Per caratterizzarla invece e nel modo più limpido come una scelta che dia al Paese la garanzia dell’unità nazionale, della difesa del principi e del valori che stanno a fondamento della Repubblica, del consolidamento delle regole e della funzionalità della democrazia, della correttezza del rapporti tra i diversi poteri dello Stato.
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Montecitorio, qui tutto pronto per i «giorni del Presidente»
Nel palazzo la popolazione si triplica: arrivano 323 senatori, 58 delegati regionali e migliaia tra giornalisti italiani e stranieri, tecnici, custodi dell’ordine
Una sala stampa aggiuntiva – Il pubblico
ROMA — Vigili del fuoco e giornalisti esteri, uomini del servizi segreti e tecnici per le dirette adiotelevisive, baristi in soprannumero e staff rinforzatissimi dei quotidiani Italiani. E poi tutti i commessi in servizio, ed in più quelli prestati dal Senato. E i vigili urbani mobilitati per ordinare il traffico nelle piazze che circondano Montecitorio. E tanti, tanti altri addetti alla grande macchina organizzativa Insomma, i 1011 «grandi elettori» che da domani pomeriggio saranno chiamati a votare per l’ottavo presidente della Repubblica (prima i 323 senatori, poi i 630 deputati, e infine 158 delegati regionali) finiranno per essere una minoranza tra quanti vivono ogni sette anni l’avvenimento a Montecitorio. Fatto è che normalmente la struttura della Camera deve provvedere alle esigenze dei soli deputati e dei cronisti di quella che è un po’ la sala stampa-chiave della politica Italiana. Poi di punto in bianco la popolazione del Palazzo si triplica; e bisogna apprestar tutto non per un solo giorno ma tenendo presente l’eventualità (tutt’altro che rara nel passato) che le votazioni si prolunghino per parecchi giorni praticamente senza interruzioni.
- Tirato a lucido Montecitorio, decorati i corridoi con le piante fornite dal Servizio giardini del comune, raddoppiati i servizi della bouvette e rinforzati quelli delle cucine (abituate a sfornare, nei due self-service, 1.200 pasti al giorno, ora dovranno provvedere ad almeno 3.000 pasti); l’unica cosa a cui non si può rimediare è la capienza dell’aula di Montecitorio, dimensionata per il plenum dei deputati. Ma non è un problema: la gran parte del «grandi elettori» sosterà nel Transatlantico, il grandissimo salone attiguo all’aula, e da lì si sposterà nell’emiciclo al momento dell’appello per infilare la scheda nell’urna di vimini posta sotto il palco della presidenza.
- Ecco, l’unica modifica apportata in aula riguarda proprio il banco della presidenza. Alla destra del presidente della Camera, Nilde Jotti, cui la Costituzione affida il compito di presiedere le sedute del Parlamento, siederà il presidente del Senato, Francesco Cossiga. E con i segretari e i questori della Camera ci saranno anche i loro colleghi di Palazzo Madama. La fatica maggiore toccherà alla compagna Jotti: leggere tutte le schede, pronunciando ben chiaro il nome del candidato votato, o specificando se si tratta di scheda bianca, nulla o dispersa. A proposito di schede, tradizione vuole che ad ogni scrutinio cambino colore. Ne è stata fatta una buona scorta.
- I giornalisti. Sono l’amore-odio del Palazzo. Senza di loro la Grande Elezione non avrebbe sull’opinione pubblica quell’impatto decisamente atteso con grande interesse non solo politico ma anche di costume. Ma con loro scattano le maggiori preoccupazioni: che sia violata la privacy di qualsiasi contatto informale o di qualunque riunione riservata; che possa essere controllato il voto di qualcuno (nelle tribune non potrà essere usato Il binocolo, le stesse camere della Tv saranno collocate in modo da garantire la segretezza del voto). La quantità dei giornalisti è tale che mentre i «vecchi» continueranno ad usare la tradizionale sala stampa, per gli altri e per i colleghi della stampa estera è stata allestita una seconda sala stampa nell’androne del vecchio ingresso di piazza del Parlamento. A pochi passi da lì i box per le televisioni (anche le private), per le interviste ai leaders politici, i dibattiti, ecc. I giornalisti dovranno essere chiaramente riconoscibili. Per questo porteranno sulla giacca un vistoso contrassegno d’identificazione anche della testata per la quale lavorano.
- Uno dei segreti della funzionalità della Camera è la sua completa autosufficienza: posta e banca, bar e ristoranti, ufficio viaggi e barberia, tabaccheria e servizi sanitari (le malattie più frequenti tra i parlamentari? Le stesse del giornalisti: i disturbi cardiaci e quelli dello stomaco, ulcera in testa), officine d’ogni genere (compresa quella che tiene sempre in forma le macchine da scrivere dei giornalisti). Basta così far girare il motore al massimo regime e tutto fila (o dovrebbe filare) liscio come l’olio: più aria condizionata, più telefoni, più ristori, ecc. Gli stessi tesserini d’identificazione in realtà servono soltanto per chi frequenta molto saltuariamente Montecitorio. Di tutti gli altri, degli ospiti abitudinari, i commessi di solito conoscono tutto: non solo il volto e la voce (che fatica, per loro, ad ogni inizio di nuova legislatura, abituarsi subito a riconoscere i neo-deputati avendone visto spesso solo una vecchia istantanea), ma anche le abitudini, i luoghi dove son soliti sostare di più, le commissioni di appartenenza; come dei giornalisti per-sino il tavolo di lavoro e l’interno telefonico. Sono allenatissimi: c’è da star certi che a Montecitorio non entrerà se non chi ne avrà diritto.
- E il pubblico? Considerato il numero delle tribune sopra l’emiciclo ed il fatto che parecchie hanno destinazioni prestabilite (la stampa, i fotografi e la Tv, il corpo diplomatico, gli ex parlamentari), per gli elettori del «grandi elettori» lo spazio è ridotto ma comunque assicurato. I «passi» vanno richiesti ai gruppi parlamentari che a loro volta trasmettono le domande ad uno speciale ufficio della presidenza abilitato a rilasciarli. C’è da precisare che c’è già il «tutto esaurito».
Giorgio Frasca Polare
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Da domani riuniti nell’aula della Camera i 1.011 «grandi elettori»
Ore 16, comincia la gara per il «colle più alto»
Ecco tutte le regole dell’elezione
Le sedute saranno dirette da Jotti assieme a Cossiga Per prassi non votano i presidenti del Parlamento
Il meccanismo degli scrutini: maggioranza qualificata per i primi tre, poi assoluta
I sette precedenti
ROMA — Alle 16 in punto di domani, i 1.011 «grandi elettori» entreranno nell’aula di Montecitorio. Subito dopo, Nilde Jotti — al suo fianco siederà il presidente del Senato Francesco Cossiga — comincerà a chiamarli ad uno ad uno. Prima i senatori, poi i deputati, quindi i delegati regionali: ognuno deporrà la propria scheda nell’urna posta sotto il banco della presidenza. Lo spoglio dovrebbe iniziare verso le 18.30. E circa un’ora dopo sapremo chi sarà nuovo inquilino del Quirinale oppure, in caso di fumata nera, che la «grande assemblea» è stata riconvocata per il giorno successivo. Ma come si suddividono i «grandi elettori»? Quali sono i meccanismi dell’elezione? Cos’è accaduto in passato? Ecco una sorta di «vademecum» della corsa per il Quirinale.
I «GRANDI ELETTORI». Come si è detto, sono 1.011 (ma almeno 4 non voteranno: Nilde Jotti e Francesco Cossiga, in quanto presidenti dei due rami dei Parlamento; II deputato radicale Toni Negri, latitante; e il deputato missino Vincenzo Trentino. che si è dichiarato dl fede monarchica). I deputati sono 629, i senatori di origine elettiva 315, quelli a vita 8 (Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Cesare Merzagora, Amintore Fanfani, Leo Valloni, Camilla Ravera, Carlo Bo e Norberto Bobbio); i delegati regionali 58. Vediamo ora la suddivisione per gruppi politici: Dc 370; PCI 283; Sinistra indipendente 38; PSI 119, Msi 62; Pri 45; Psdi 33; Pli 24; Pr 12; Dp 8; Svp 7; Un. Vald. 3; Ps d’Az. 3; Liga veneta 2; Verdi 1; Misto 1.
MECCANISMO DELLE ELEZIONI. Nel primi tre scrutini è necessaria una maggioranza qualificata dei due terzi della «grande assemblea», vale a dire 674 voti. Se nessun candidato raggiunge questo quorum, dal quarto scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza assoluta (506) degli aventi diritto al voto. Se domani pomeriggio non si riuscirà ad eleggere il presidente della Repubblica, la seduta sarà riconvocata per martedì alle 10 e per il pomeriggio, nel caso di una nuova fumata nera. Si procederà così, con due scrutini al giorno (tranne il 28 e 29 giugno: un solo scrutinio quotidiano; per impegni del governo al Consiglio Europeo convocato a Milano), fino a quando un candidato non avrà ottenuto i voti necessari per essere eletto. Che cosa è accaduto nelle precedenti elezioni?
ENRICO DE NICOLA. Fu eletto Capo provvisorio dello Stato il 28 giugno del ’48, dall’Assemblea costituente, subito dopo il referendum istituzionale. Passò al primo scrutinio, con 395 voti (su 501), 73 in più del quorum dei tre quinti allora necessario. De Nicola si dimise poco meno di un anno dopo, ritenendo concluso il suo mandato insieme a quello dell’Assemblea costituente; ma venne rieletto li 26 giugno del ’47 con un vero e proprio plebiscito: 405 voti su 435 votanti. Dal primo gennaio dell’anno successivo esercitò le attribuzioni di presidente della Repubblica e ne assunse il titolo. Rimase in carica fino al 10 maggio del ’48.
LUIGI EINAUDI. Fu il primo presidente ad essere eletto dopo l’entrata in vigore della Costituzione: al quarto scrutinio, maggio del 48, con 518 voti su 872,quelli dl democristiani, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Le sinistre e le destre gli contrapposero l’ex presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando. I repubblicani nei primi tre scrutini avevano appoggiato li ministro degli Esteri, Carlo Sforza. La candidatura di Einaudi prese quota quando apparve ormai chiaro che non tutti i democristiani avrebbero votato per il «laico» Sforza. GIOVANNI GRONCHI. Democristiano, venne eletto anche lui al quarto scrutinio, con 658 voti, il 29 aprile del 1955. Sul suo nome confluirono Dc, Pci, Psi e Psdi, dopo che il candidato ufficiale della Dc, Cesare Merzagora, era stato «impallinato» dal franchi tiratori dello scudo-crociato.
ANTONIO SEGNI. Democristiano, per eleggerlo, il 6 maggio del ’62, furono necessari nove scrutini. Riuscì a farcela con 443 voti, appena 15 in più del quorum richiesto. Fu una candidatura contrastata all’interno della stessa Dc. I comunisti dopo aver votato nel primo scrutinio il proprio candidato di bandiera, Umberto Terracini, dal secondo in poi fecero confluire i propri voti su Giuseppe Saragat. Segni rimase in carica solo 27 mesi, lasciò il Quirinale in seguito ad una grave malattia. GIUSEPPE SARAGAT. Socialdemocratico, venne eletto dopo 21 scrutini, il 28 dicembre del ’64. Questo lo schieramento iniziale: Giovanni Leone era il candidato ufficiale della Dc; Saragat era sostenuto da Psi, Psdi e Pri; Umberto Terracini dal Pci. Leone, sin dalle prime battute, non ebbe tutti i voti del suo partito. Al terzo scrutinio, fu ritirata la candidatura di Saragat (Psi e Pri erano passati all’astensione). Al tredicesimo, spuntò li nome di Nenni, appoggiato da Psi, Pci e Pri, mentre la Dc ritirò Leone dalla lizza. Nenni, almeno sulla carta, non poteva farcela. E al diciottesimo scrutinio, il Psdi ripresentò Saragat. Il braccio di ferro tra Nenni e Saragat durò un paio di scrutini, senza esito. Dopo un incontro con il rivale, il leader socialista decise di lasciare il campo. E Saragat venne eletto, dopo aver pubblicamente chiesto l’appoggio di tutti i partiti antifascisti, con 646 voti: Dc, Pci, Psi, Pri, Psdi.
GIOVANNI LEONE. Venne eletto li 24 dicembre del ’71, dopo 23 scrutini e con il voto determinante del Msi. Non era lui il candidato ufficiale della Dc, ma Amintore Fanfani. Fanfani però non fu votato da molti democristiani. Alla fine, spuntò Leone: riuscì a farcela con una maggioranza davvero risicata di 518 voti contro i 408 ottenuti da Nenni, candidato delle sinistre. Leone fu costretto a dimettersi 6 mesi prima della scadenza naturale del suo mandato, travolto dallo scandalo Lockheed.
SANDRO PERTINI. Fu eletto l’8 luglio del ’78, al sedicesimo scrutinio, con la percentuale di voti più alta che sia mai stata registrata in una elezione del presidente della Repubblica: 832, l’83,61 per cento. Nei primi tre scrutini, il nome di Pertini non era fra i candidati: la Dc appoggiava ufficialmente Gonella, ma aveva in serbo il nome di Zaccagnini; il Pci Amendola; il Psi Nenni; il Pri La Malfa. Dal quarto scrutinio, Craxi rivendicò al Psi il diritto di esprimere il nome del futuro presidente. Circolò una rosa di «papabili»: Norberto Bobbio, Antonio Giolitti, Giuliano Vassalli, Sandro Pettini, Francesco De Martino, Massimo Severo Giannini. Ma l’uomo su cui Craxi puntava veramente era Vassalli. Dopo otto giorni trascorsi senza che i partiti della maggioranza di «solidarietà nazionale» fossero riusciti a trovare un accordo (la Dc in tutte queste votazioni si astenne), i candidati veri o presunti del Psi si ritirarono. Anche Pertini, che rilasciò però una dichiarazione destinata ad imprimere la svolta: «Ritengo necessario ribadire — disse — che una candidatura socialista deve, nell’interesse del paese, essere espressione di tutto l’arco costituzionale che rappresenta l’unità nazionale». Furono queste le parole magiche che consentirono, di lì a poco, l’elezione del nuovo presidente con un vero e proprio plebiscito.
gi. fa.