Cultura:
Livorno 1921, il tormento di una nascita.
di Alessandra Bernocco
Com’è avvenuto che il Partito comunista sia divenuto immemore di se stesso? Parto dalla domanda che Simona Maggiorelli, direttrice di Left, ha rivolto ad Aldo Tortorella, collegato in video nel corso della presentazione al pubblico, a Palazzo Merulana di Roma, di Livorno 1921, il tormento di una nascita, volume edito da Left e curato da Rita De Petra che prova a far luce sui momenti cardine della storia di un partito nato come conseguenza di una scissione.
Cent’anni fa, a Livorno, il Pci di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Amedeo Bordiga, nasceva come costola autonoma del Partito Socialista, durante il XVII Congresso nazionale.
Come si è arrivati a quella scissione e come da quel momento in poi si siano formate le diverse correnti, fino al definitivo scioglimento del PCI nel 1991, dopo la caduta del muro di Berlino, è argomento di questo lavoro, affidato a una pluralità di interventi critici indipendenti. Ma è anche tema caldissimo tuttora irrisolto.
Guardando indietro la domanda è essenzialmente una: fu davvero scissione? Fu emancipazione ideologica di una componente libera che oggi chiameremmo dura e pura rispetto al cauto riformismo di Filippo Turati o fu una scelta indotta, dettata dal Partito Comunista sovietico? Oppure, come suggerisce Fabio Vander nell’introduzione, fu il risultato di equilibri di alleanze con la maggioranza centrista che ha giocato a favore della destra riformista determinando l’espulsione dell’ala comunista?
Quello su cui si converge è il rifiuto di liquidare come un errore o ancor più un fallimento il pensiero di sinistra. Quello che si cerca di fare è analizzare la vicenda che da quel momento arriva fino a noi, passando per la svolta della Bolognina e la fondazione di un partito nuovo che ha rinunciato al suo nome e ha in grande parte abdicato di fronte alla critica del modello capitalistico. Fino all’attuale situazione in cui versa la sinistra, tra l’attuale Pd e le altre formazioni.
Stando al dibattito nato intorno al libro mi sembra che si possano individuare due linee solo apparentemente divergenti, che aiutano a riflettere anche sulla nostra contingenza.
La prima risponde alla domanda di inizio. Perché il Pci ha dimenticato se stesso, chiedeva Maggiorelli. Perché, risponde Tortorella, nel Pci convivevano due tendenze diverse: una dichiaratamente anticapitalista e una pragmatico-riformista, che tra l’altro si poneva la questione dell’accesso al governo.
La seconda, partendo dal presupposto condiviso che nel Pci non sia inscritto un cupio dissolvi (De Petra), riconosce nei partiti moderni non il riflesso di un unico soggetto politico ma il prodotto di aggregazione di correnti diverse che si uniscono sotto uno stesso simbolo, di volta in volta diverso e prima o poi destinato a saltare. “Se si nasce per aggregazione, prima o poi ci si separa”.
Ora, con un volo nemmeno poi tanto pindarico penso alla recentissima situazione romana post elezioni e in particolare alla lista che ha visto Articolo Uno presentarsi insieme ad altre correnti sotto il nome di Sinistra Civica Ecologista e mi domando se ci sia stata a monte un’unione di intenti in vista di un’equilibrata spartizione di incombenze e di seggi, perché questa ultima suggerirebbe di no. E forse c’è da chiedersi se la domanda non se la siano posta anche certi elettori che hanno preferito dribblare le urne. “I nomi non fanno le cose ma possono aiutare a capire le cose”, dice ancora Tortorella a proposito della dismissione del nome e del simbolo del Pci. E che si tratti di aggregazione ibrida di correnti diverse o di scissione alla volta di un pensiero delle origini, non fa molta differenza. Il punto sembra essere, allora come adesso, la rivendicazione dell’unità sostanziale di un soggetto politico come presupposto indispensabile per considerarsi partito. Unità attorno a grandi questioni di contenuto che non possono prescindere dalla critica alle peggiori derive del neoliberismo, a cominciare da quelle che hanno attecchito e imbastardito il centrosinistra. E unità intorno a questioni di metodo e forma, che non possono prescindere da lealtà e trasparenza.
Vero è che questo volumetto di meno di 150 pagine non è un instant book, come dice Vander nell’introduzione citata, ma aiuta a capire, fornendo anche ai profani una chiave di lettura di cento anni di storia italiana e non solo. E lo fa grazie a un contributo plurale di interventi e di voci: Rita De Petra, Livorno, cronaca di una scissione annunciata; Leda Di Paolo, Un dopoguerra incendiario; Anna Schettini, Marx e l’Internazionale dei lavoratori; Giampiero Minasi, Il difficile, generoso, cammino della sinistra; Noemi Ghetti, La battaglia culturale di Gramsci dirigente del Pci; Edoardo Raimondi, Le scissioni della sinistra italiana dal 1989 ai nostri giorni. Un secondo capitolo, curato da De Petra, è dedicato alle interviste: Giovanni Cerchia (Il Pci e la via italiana al socialismo); Francesco Somaini (Cosa ci insegna la storia del socialismo italiano); Giovanni Russo Spena (La sinistra o è anticapitalistica o non è); Andrea Ventura (La razionalità disumana dell’uomo economico).